“Johanna” di Felicitas Hoppe

di / 15 luglio 2014

«Johanna, Giovanna nacque nella notte dell’Epifania, la notte che celebra l’arrivo dei tre Re Magi. Gli animali iniziarono a parlare, i frati tennero alta la stella, solo i re non riuscivano a mettersi d’accordo».

C’è qualcosa di piano e regolare nel prologo di Johanna (Del Vecchio, 2014), qualcosa che accoglie il lettore (lo stile limpido, pianeggiante), qualcos’altro che lo orienta (le coordinate spazio temporali: quando Giovanna è nata, come e quando Giovanna è morta), e qualcos’altro ancora che lo intriga e che lo spinge a chiedersi, proprio come ogni buon prologo dovrebbe fare, «d’accordo, questi sono i fatti, ma dov’è la storia adesso?». Allora, speranzoso, volta pagina. Ma della storia in Johanna non c’è traccia. Al suo posto c’è un magma paratattico, una scrittura convulsa e immaginifica, una serie di frasi tanto giustapposte quanto correlate: «Signori e signori, la verità, che cos’è? Il volto di un uomo che nell’aula dell’ateneo siede a cassetta e che a casa si disperde in copricapo della vergogna, in scritte decifrate solo da un professore universitario […] Ma il gran da fare e il tratto di strada così trafficato fanno sì che si preferisca rinunciare  a una scappata».

Per un momento il lettore si sente stordito, forse persino raggirato. Non vede né roghi né castelli, non trova Johanna e non rintraccia neppure un suo sostituto, un altro protagonista. La storia che il prologo gli aveva fatto reclamare con tanta forza si è dissolta in un coro indistinto di voci, di stanze secondarie, di copricapi che recitano scritte un po’ sibilline – possiamo anche in altro modo – un po’ gnomiche – cenere alla cenere – e un po’ ironiche – che donna! magari fosse inglese.

Ma se, paziente, il lettore accetta di lasciarsi trasportare in questo flusso apparentemente inestricabile di voci e luoghi, si accorgerà che un filo conduttore (neppure così tenue) c’è, così come di protagoniste ce ne sono ben due. La prima, la più invadente, è una studentessa senza nome, una dottoranda dei nostri giorni (riconosciamo le aule universitarie, il suo modo di parlare e la sua sensibilità così novecenteschi), che sta scrivendo la sua tesi di dottorato proprio sul destino di Giovanna D’Arco. L’altra voce, sotterranea forse, ma non meno intensa e frenetica, è proprio quella di Johanna, che fa capolino tra i pensieri della studiosa, imponendosi sul suo stesso racconto con la forza di una figura ancora vitale.

All’iniziale spaesamento subentra quindi un’immersione totale non nella storia – perché sì, è vero, la storia tradizionale, con i suoi passaggi logici e i suoi nessi conseguenziali, non c’è in questo libro – ma nelle figure di colei che cerca e di colei che è cercata, figure che finiscono man mano per fondersi l’una con l’altra.

«Che cosa diavolo sto cercando qui?», si chiede la studentessa nei momenti di sconforto, quelli in cui la sua ricerca sembra non procedere in alcuna direzione. «Presumibilmente quello che cerchiamo tutti. Un posto caldo intorno al tavolo dove sono tutti alla pari, in mezzo al quale manca l’intimo centro, perché nessuno è disposto a essere l’unico vero». Stabilire una volta per tutte cos’è stata Giovanna, definirne i tratti, delinearne le caratteristiche non è lo scopo né dell’anonima studentessa né dell’autrice, Felicitas Hoppe.

Riportare in vita la figura, spogliarla delle innumerevoli interpretazioni che ha avuto nel corso dei secoli, è, invece, l’ambizioso progetto di Johanna. C’è un’eco piuttosto forte della Cassandra di Christa Wolf in questo romanzo, sia nell’intento che nelle atmosfere: ma se lì a dissolversi era la mitologia e a prenderne il posto era il prepotente monologo della sacerdotessa, qui è il discorso storico a essere decostruito e a dar voce a Giovanna è un imponente affastellarsi di immagini, frasi e soprattutto di toni, che spaziano dal poetico al sarcastico, dal postmoderno al lirico, senza mai concedere tregua al lettore, ormai consapevole che quella che ha di fronte è una Johanna mai raccontata prima.

(Felicitas Hoppe, Johanna, trad. di Anna Maria Curci, Del Vecchio, 2014, pp. 198, euro 14)

 

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