Il sottile disagio del pronostico favorevole

di / 17 luglio 2014

La squadra che ci ha eliminati agli ottavi è arrivata in finale. L’ha anche vinta. Erano vecchi, fuori forma, ci dicevamo. Il pronostico che uno degli organizzatori prepara ogni settimana su Facebook li dava come sfavoriti contro di noi. Ha continuato a darli come sfavoriti anche ai quarti, anche in semifinale dopo che sono passati. Definiva la loro vittoria contro di noi un «miracolo sportivo».

Giustamente loro non l’hanno presa bene. Posta in questi termini sembra che il Chievo abbia battuto il Real Madrid al Bernabeu. Sono passate due settimane da quella partita e c’è stato tempo di rifletterci su. Hanno segnato all’ultimo minuto, non lo avessero fatto saremmo andati ai rigori e forse le cose sarebbero andate in un altro modo. Non è pensabile immaginare che il Sassuolo sarebbe riuscito a segnare al posto loro. In tutta la partita avevamo avuto difficoltà a tirare nello specchio, figuriamoci a segnare.

Non è solo un discorso di incapacità realizzativa. È un discorso più ampio, di atteggiamento, di mentalità di sacrificio e lotta. Gli avversari che ci hanno eliminati agli ottavi hanno passato i quarti vincendo ai rigori dopo aver pareggiato nel tempo regolamentare, segnando di nuovo il gol definitivo nei minuti finali. In semifinale, di nuovo, sono passati ai calci di rigore, ancora con un gol negli ultimi minuti. In finale, la rete del definitivo 2 a 1 è arrivata a tre minuti dalla fine. Non è casuale. Meglio: chiaramente non è il prodotto di una scelta precisa di resistenza alla Rocky – incassare tutto il tempo per ribaltare la situazione quando la fine sembra lì bella e pronta –, ma è l’espressione di un modo di intendere il torneo che il Sassuolo non è riuscito ad avere e su cui deve ragionare per la prossima (eventuale) stagione. Nella migliore delle tradizioni del gergo calcistico dell’opinionista ex calciatore, loro non mollano mai, ci credono fino all’ultimo, hanno un’organizzazione precisa di gioco che permette di superare i dislivelli tecnici (immaginate ogni frase detta da Bergomi e aggiungete un «Fabio» dopo ogni virgola, avrete la telecronaca di una qualsiasi partita dei Mondiali). Il Sassuolo, invece, ha tirato fuori le partite migliori per caso, nel momento in cui nessuno se lo aspettava, incapace di essere continuo e allo stesso tempo di far fruttare qualcosa dalle prestazioni da squadra vera. Tutte perse, in un modo o nell’altro.

Abbiamo già parlato dell’ottavo di finale del trofeo invernale, di come nonostante l’importanza della partita al campo siano arrivati solo sette giocatori e di come nonostante tutto il Sassuolo abbia resistito quasi tutta la partita, mollando solo alla fine e incassando troppi gol per come erano andate realmente le cose. Era una partita da cui nessuno si aspettava niente, e invece è venuto fuori di tutto, tranne un risultato utile.

È andata così anche nella Summer Cup, ad esempio nella partita contro il Peñarol che ha chiuso al secondo posto nel girone. Ancora una volta le premesse erano atroci. Loro: divise personalizzate con sponsor di una gioielleria del Nuovo Salario, borsoni tutti uguali con il numero del giocatore applicato sui bordi per essere riconoscibili, numero nove con muscoli e tatuaggi in esubero, riserve, ghiaccio spray e discorso tattico prepartita. Noi: formazione chiusa alle 19:45 con inizio del match alle 21, un neo convocato mai visto prima, assenza del Giocatore Chiave per infortunio, alle 18 visione di Colombia – Costa d’Avorio con la più inopportuna delle birre, una quantità variabile tra le cinque e il mezzo pacchetto di sigarette consumate prima dell’inizio della partita, riscaldamento condotto cercando di fare canestro con i piedi nel campo da basket in cemento del circolo, maglie consegnate prima di entrare in campo, assoluta mancanza di un’idea di come schierare i giocatori.

L’Amico chiamato all’ultimo appare in possesso di fondamentali ben oltre il fondamentale già mentre cazzeggia aspettando gli altri. Gli viene affidato il centrocampo, anche se giocherebbe in attacco, di scelta, anche se non conosce nessuno. Probabilmente, pur avendo giocato una sola partita con il Celtic Sassuolo può essere in tutta tranquillità inserito nella top ten dei migliori della stagione tra i trentadue che hanno giocato. Pure nella top five. Pure nella top three probabilmente.

Come se conoscesse tutti da sempre si impone, ordina i passaggi, riceve la palla, copre in difesa, si presenta in attacco, chiama tutti per nome dicendo cosa fare. Porta quell’energia che troppo spesso è mancata, quel comando in campo che riesce a muovere chi non ce la fa per conto proprio. Ovviamente abbiamo comunque perso, per due a uno, ma è stata agonisticamente e tatticamente una delle partite migliori. Era tutto possibile. Quando mancavano poco più di dieci minuti alla fine il Capitano di Riserva, che di suo è uno di quei difensori cresciuti con un ideale di calcio che fa della marcatura una promessa di matrimonio, del possesso palla un incubo, del sacrificio uno stile di vita, lanciava con millimetrica e incredibile, viste le premesse, precisione dalla tre quarti difensiva per il Cugino che defilato dalla destra infilava un gol di difficoltà rara e proiettava speranze per la possibilità di un pareggio. A seguire c’è stato tempo per una rissa sfiorata sugli sviluppi di un calcio di punizione dal limite. Una presunta gomitata alla gola del nostro Tatuato, ovviamente inesistente, ovviamente buttata lì per perdere tempo (e non solo tempo, visto che l’Amico aveva tirato la punizione con il gioco già fermo e aveva segnato infilando la palla in un angolo imprendibile). Poco dopo, il loro tatuato si è buttato a terra per un infortunio non meglio precisato che ha richiesto minuti per essere prima definito, poi curato, e basta, fine dei giochi.

C’è da dire, se si vuole continuare un discorso oramai centenario che fa dell’arbitro – insieme ai politici – l’ultimo capro espiatorio dei peccati dell’umanità, che sul punteggio di uno a uno, a una manciata di minuti dall’inizio del secondo tempo, il loro secondo gol è nato da un’azione sicuramente discutibile. Di certo non si parla di una riproposizione dell’ormai mitologico Byron Moreno, ma il modo in cui gli avversari hanno insaccato non è stato del tutto limpido. Succede tutto velocemente e in maniera confusa. Il nove con muscoli e tatuaggi è in mezzo all’area, sfrutta un rimpallo favorevole ma si allunga troppo la palla. Il portiere (difensore/centrocampista/attaccante) è pronto a uscire e a far suo il pallone. Ecco, forse non sarà stato impavido come Peruzzi, ma c’ha provato. Ha provato un’uscita a valanga, prodigandosi in un movimento esteticamente non dei migliori, che della valanga ha molto, dell’uscita poco, ma la palla, alla fine, è quasi tra le sue mani. Ce l’ha. Nel frattempo, il tatuato muscoloso è in tensione, sta cercando di allungarsi per portare la sua squadra in vantaggio. Solo che la sua gamba va a sbattere sulla schiena del portiere (difensore/centrocampista/attaccante) che non regge all’impatto e si sfalda miseramente. Da valanga a slavina, da slavina a mucchietto di neve. La palla finisce sui piedi di un altro loro, che come un avvoltoio, con la stessa empatia che Inzaghi aveva nei confronti dei portieri, la butta dentro. «Arbitro, era fallo, come hai fatto a non vederlo!», urla il portiere (difensore/centrocampista/attaccante) dimenandosi come un insetto a pancia in su. Niente, l’arbitro liquida la cosa con un «Quello non è mai fallo» e palla al centro.

Nonostante il gol ingiusto, nonostante ogni possibile recriminazione, la partita aveva lasciato entusiasmo. Un’apparenza di gioco era stata trovata, il sacrificio era stato generale, come la corsa e l’impegno.

Le premesse per l’ultima partita del girone sembrano, a questo punto, ottime. Con una vittoria e una serie di circostanze è ancora possibile arrivare quarti e irrompere con tutta l’arroganza dell’outsider in Champions League.

Le premesse sono, nella migliore delle tradizioni, spazzate via dalla realtà. A quattro ore della partita si può contare su sei giocatori. Il Cugino ha dato buca all’ultimo, rimangono i quattro indissolubili: Capitano di riserva, Giocatore Chiave, Terzino che corre tanto e il portiere (difensore/centrocampista/attaccante), poi il Bomber e il Collega. Ognuno svuota la rubrica alla ricerca del jolly da calare a sorpresa. Il Capitano di riserva passa la giornata al telefono. Alla fine si arruola il Tatuato con un amico, il Terzino porta un altro che giocherà poi anche gli ottavi. Ancora una volta si va in campo con una squadra montata a a caso e in poche ore, con due giocatori mai visti e il Tatuato che ne ha giocate tante ma non è mai proprio entrato in quei meccanismi minimi della squadra. Almeno, si ha il lusso di una riserva. Durerà poco.

Comunque, partivamo sulla carta con i favori del pronostico. Il Valencia aveva totalizzato fino a quel momento un solo punto ed era ultimo in classifica. Il confronto estetico, essenziale per un primo giudizio, sembra rassicurante: gli avversari appaiono ancor meno professionali di noi, hanno magliette diverse, brutte, abbinate casualmente ai calzoncini, alcuni giocano addirittura in canotta. Esce fuori un’accozzaglia di macchie colorate, una specie di Pollock fatto male su tela verde al Villaggio Olimpico. Il loro capitano arriva al lancio della monetina già sudato e con l’affanno. Anche il Capitano di riserva è già sudato, ma per un altro problema che gli farà giocare solo i primi dieci minuti.

Segniamo per primi su calcio d’angolo. Il Giocatore Chiave la butta in mezzo, la palla rimbalza in mezzo all’area e il Terzino che corre tanto con una quasi ginocchiata fa gol. Uno a zero. Loro, però, pareggiano subito dopo e si va al riposo in parità.

Torniamo in vantaggio su rigore (limpido e indiscutibile, essendo per noi) dopo cinque minuti. Tira il Tatuato e spiazza il portiere. Inconsciamente pensiamo sia fatta e ci rilassiamo. Troppo. Loro hanno un paio di giocatori che dovevano essere stati convocati per la prima volta, o dovevano aver recuperato in quel momento da infortuni millenari, altrimenti non si spiega quell’unico punto in classifica. Dribbling, stop perfetti, tiri pericolosissimi. Quell’eccesso di narcisismo che appartiene a chi nei tornei amatoriali, alla fine, un po’ si annoia e cerca in continuazione la giocata a effetto.

Riusciamo a contenerli per un po’, ma a un certo punto, complice il rilassamento e la stanchezza, emergono dal torpore. In dieci minuti segnano tre gol, e si portano sul quattro a due. Non è possibile, ma è vero. Segniamo il terzo gol con il Bomber, ma è troppo tardi. I sogni di gloria svaniscono e si spalancano le porticine dell’Europa League.

Era stato un altro Valencia, stesso nome, diversi giocatori, ad allontanare il sogno Champions anche al trofeo invernale. Una sconfitta per 5-4 degna di quel leggendario Roma-Inter del primo Zeman giallorosso, quello divertente. Anche in quel caso partivamo con i favori dei pronostici.

Forse è la pressione di essere favoriti a pesare sulla squadra, ma è più facile che sia il problema che ci ha accompagnato in tutto l’anno ad aver fatto la differenza in quella partita. Non si passa dall’esaltazione per un bel calcio espresso a dimenticare i rudimenti. Non è perdere, il punto. Il punto è non riuscire ad avere un’identità di squadra mai perché la squadra, nel momento in cui servirebbe di più, non c’è.

Abbiamo perso partite giocando in superiorità numerica. Siamo stati eliminati agli ottavi in una partita che solo tirando in porta avremmo potuto vincere. Osservando i nostri ultimi avversari vincere il torneo contro una squadra composta per metà da gente che avevamo affrontato durante l’inverno (e c’è la storia bellissima del difensore centrale, un ragazzo africano, fisicamente imponente, che tocca la palla come nessuno degli altri in tutto il torneo la tocca, che si vede essere di un altro livello e che viene fuori che quando era a casa, in Burkina Faso, era nel giro delle nazionali minori e poi è venuto in Italia e ha lasciato perdere il calcio per studiare, ha messo su chili, ha perso fiato, ma ha tenuto la classe) è apparso evidente come la differenza sia nell’essere gruppo, ancora di più che nell’avere il giocatore che ti risolve la partita, o tutte le partite. Se non c’è compattezza, adesione, non si va da nessuna parte, neanche per divertirsi.

È finito il Mondiale, è finito il Mundial. La Germania, a Rio De Janeiro, mentre tutti aspettavano Messi, ha dimostrato che è meglio essere squadra che affidarsi a un solo giocatore.

Sarà un’estate di riflessione, in attesa della prossima stagione. I giocatori ci sono. Ci dovranno essere di più nel momento che serve. La campagna acquisti dovrà essere prima di tutto morale, nelle motivazioni, nella voglia di Fare Quadrato una volta per tutte e tenerlo lì, in mezzo al campo.

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