“Morte di un uomo felice”
di Giorgio Fontana

di / 20 ottobre 2014

Non esistono assiomi. E se anche fosse confesso d’ignorarli. Mi accade l’inspiegabile. Tra occhi e falangi. Latifondi di libri quasi invisibili e poi lui. Quello in cui m’incaglio. Sortilegio variabile. A volte è uno spiffero, la punta di un odore. O la buccia più ipnotica della copertina. Stesa lì, solo per intrappolarmi. Questa volta invece è stato un titolo.

Pochi frutti di parole antiche, assolute, universali. Quasi una formula magica. Morte di un uomo felice (Sellerio, 2014) di Giorgio Fontana. Trentatré anni, lombardo, vincitore del Premio Campiello 2014. E calendari prima di applausi e proclamazioni, senza il sospetto allampanato di una recensione, questo titolo ha assolto il suo dovere. È stato un semplice richiamo. Stava poi alla storia ossequiare la promessa. Raccontarsi per strada.

Il protagonista, Giacomo Colnaghi, fa il magistrato. E lo è, ancor prima di farlo. Lo è nello strascico impazzito degli anni di piombo, nel delirio invasivo di un turbine che non ha scopi, se non quello di espandere il sangue. Fa caldo a Milano nell’estate dell’81, un caldo che schiaccia come una fatwa e Giacomo, lontano da Saronno e dalla sua famiglia, versa quei mesi indagando sull’attività di una nuova banda armata, responsabile di aver freddato un esponente democristiano. Lo è magistrato perché sa. Sa che le sue ipotesi, i suoi interrogatori, le rotazioni indefesse intorno a quei crimini gli hanno cucito addosso una data veloce, a breve scadenza. Su una strettoia in cui non può leggerla. E comunque non smette. Di lavorare e sperare. Di sudare e mediare. Non vuole limitarsi a rintracciare i colpevoli. Vuole studiare le colpe, scrutarle, maneggiarle con cura. È stanco di quell’odio. E ha fede in tasca. Nel cielo abitato, nell’uomo errante. Vuole spezzare la spirale, perché «alla fine di tutto resta solo la morte. Non c’è spazio per la conoscenza, per l’amore, per una pizza, per una passeggiata: il mondo svanisce completamente, il mondo che volevi salvare. Restano solo il gelo e la vendetta».

È un padre Giacomo, di figli che accarezza a distanza, non abbastanza. E prima ancora è stato figlio. Di un partigiano, morto troppo giovane per lasciargli più dei cromosomi e di un biglietto, vergato col tremore di chi sta per assaggiare tanta terra.

Era un ragazzo, Ernesto, nella primavera del ’44 e non sapeva spiegare cosa fosse il comunismo. Però sapeva che per quella sola alternativa all’orrore nazista valeva la pena mettersi in gioco. Abbrancare un momento, anche un solo coriandolo di libertà.

Le loro vite galoppano in parallelo, compenetrandosi. Il cattolicesimo di Giacomo, lo scetticismo di Ernesto. I loro sogni, le loro religioni si abbracciano senza toccarsi. Il destino di due generazioni, sacrificate ai propri ideali, si palesa in assenza di trucchi. Con l’incantesimo dell’onestà. Ognuno svolge il suo compito e basta. Sceglie di non sottrarsi alla propria natura, reclama il diritto di assecondare se stesso. Ed è forse questa, la sola indispensabile forma di eroismo. Che cerca ossigeno e non clamore. E anche in questo romanzo non c’è niente di altisonante. C’è la chiarezza dell’urgenza, la bellezza di una forza necessaria. E i dettagli diventano essenziali.

L’ironia umile di Colnaghi, le serate di vino e risotti con il collega Roberto, le tazzine invecchiate di caffè, l’aria incollata di luglio a Milano. E sul fronte paterno, che continua a mancargli e che comunque lo integra, gli scioperi in fabbrica, lo sbando dopo l’armistizio, i volantini di lotta e la speranza clandestina. Tutto ricostruito con dovizia e rispetto del narrato. Leggendo di terrorismo e di resistenza. Tesaurizzando gli aneddoti e schivando con cura il dolore gratuito. Anche perché non c’è alcuna ferita pagata solo a metà.

Fontana si documenta, sprofonda nei giorni lividi, nella furia di una guerra mondiale e di un’altra tutta nostra e infine scrive, senza sbavare neanche una riga. Linguaggio secco, fendente, praticamente geometrico. Cesella i personaggi con tratti asciutti e mirati. La giovinezza di Giacomo che ammuffisce di stanchezza davanti allo specchio, dentro un matrimonio qualunque con una moglie mediocre. La sua indomita fame di pace e la voce di Ernesto nella vita di Giacomo, la memoria rammendata a suon di racconti, le due vicende dipanate come canto e controcanto di una stessa traccia.

Pieno di umori questo libro. Quelli partigiani di Fenoglio e Pavese, quelli malinconici di Magrelli di Geologia di un padre e quelli militanti degli archivi di Lotta Continua. Ma c’è di più. E non c’è nulla che non serva.

Padre e figlio si riecheggiano pur non essendosi mai visti. E la morte spezza il battito, ma non la missione che lo ha innescato. Giacomo muore leggero. Felice. Perché è stato uomo. Non ha più tempo, è vero, per il suo ottimismo, ma ha ancora le sue intenzioni. Che riempiono il petto, più di quei proiettili.

(Giorgio Fontana, Morte di un uomo felice, Sellerio, 2014, pp. 280, euro 14)

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