“La nostra terra” di Giulio Manfredonia

di / 16 settembre 2014

Resistere alla mafia coltivando i campi, opporre al sangue il rosso del pomodoro, riappropriarsi della terra. È la storia di una cooperativa sociale che ci prova in un terreno sequestrato alla mafia, schiacciato dalla presenza inquietante della casa del boss, quella che Giulio Manfredonia racconta in La nostra terra.

Filippo combatte la mafia dal suo ufficio di Bologna. Non è un poliziotto, è un’attivista della legalità, ma la sua lotta si basa su carte, documenti e conferenze. Non è mai stato sul campo, in prima linea, nei luoghi di mafia. Soffre d’ansia, a livello patologico, è metodico in modo maniacale. Allontanarlo dal suo ufficio è impossibile, ma diventa necessario per risolvere il blocco delle terre sequestrate al boss Nicola Sansone, che nonostante sia in carcere da quattro anni riesce ancora a impedire che la sua tenuta confiscata venga affidata a una cooperativa agricola. Suo malgrado, Filippo parte per il Sud e per la prima volta si scontra con la realtà quotidiana della mafia nella provincia italiana. Lontano da tutto quello che conosce, immerso in un mondo con cui deve imparare a confrontarsi, Filippo trova l’aiuto inatteso di Cosimo, l’uomo che serviva il boss come fattore e che un tempo, prima dell’arrivo dei Sansone, possedeva con la sua famiglia la terra confiscata.

Dopo i due film dedicati al personaggio di Antonio Albanese, Cetto Laqualunque, Giulio Manfredonia torna alla commedia corale, la dimensione più adatta alla sua idea di cinema dai tempi dell’esordio nel 2001 con Se fossi in teLa nostra terra ha molto in comune con il suo film più riuscito, quel Si può fare del 2008 che seguiva le vicende di una cooperativa di disabili psichici usciti dai manicomi dopo l’entrata in vigore della legge Basaglia.

Non più disabilità, ma sempre cooperative, e sempre un riferimento a un momento specifico della storia sociale italiana. Perché se nel 2008 Manfredonia aveva posto in commedia le conseguenze della legge 180 del 1978, con La nostra terra, scritto ancora una volta con Fabio Bonifacci, si concentra invece sull’applicazione della legge 109 del 1996 per il riutilizzo sociale dei terreni confiscati alle mafie.

Come per Si può fare, Manfredonia e Bonifacci sono partiti da singole storie vere raccolte in giro per l’Italia e le hanno riunite in una trama unica di impegno e lavoro, di fatica e resistenza. È cinema importante, sociale nel senso più genuino del termine, che si impegna a rendere note storie di fatica e volontà granitiche capaci di resistere a tutto. È cinema che fa sorridere anche parlando di mafia, che parla del Sud senza mostrare cartoline, senza dipingere tragedie ma raccontando il quotidiano. Un’idea di sud che si concentra tutta nel personaggio di Cosimo, il fattore interpretato da un ottimo Sergio Rubini, ambiguo, aspro, testardo, legato visceralmente alla terra come già lo erano i personaggi di un altro film, di cui Rubini era il regista, che parlava di sud, di famiglie e di terre da dividere, e si chiamava La terra, appunto.

Con la sua improbabile cooperativa (due gay, una naturista olistica, un malato di mente, un africano, un’attivista, un paraplegico, e solo due capaci di tenere una zappa in mano, Cosimo e un altro contadino di nome Veleno), Manfredonia rende omaggio al lavoro di Libera e delle tante altre associazioni che ogni giorno si impegnano per riportare la legalità laddove è stata sottratta.

La mafia di La nostra terra non è tanto nell’associazione criminale o nella potenza del boss Sansone, uomo di eleganza e cultura, inquietante nel suo essere lontano dalla rappresentazione comune del capo mafioso, quanto piuttosto nella mentalità passiva di chi accetta e non si oppone, di chi china il capo prima ancora che gli venga chiesto, di chi si arrende senza lottare. Per questo la cooperativa di Filippo (che mostra un inatteso e incoraggiante lato comico di Stefano Accorsi nel sommarsi di fissazioni e debolezze) rappresenta un simbolo di speranza. Combattere la mafia coltivando pomodori, riconoscendosi nella terra, senza perdere il contatto con le origini, ma anzi difendendole e riappropriandosene. Si può fare, ancora una volta, e Manfredonia lo dimostra.

(La nostra terra, di Giulio Manfredonia, 2014, commedia, 100’)

 

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