“Noah” di Darren Aronofsky

di / 11 aprile 2014

È il film più ambizioso di Darren Aronofsky, Noah. Dopo i successi di The Wrestler e Il cigno nero arrivano i soldi, tanti, 130 milioni per l’esattezza, e un progetto covato da anni: raccontare la storia di Noè e del Diluvio Universale, così come è nella Bibbia.

La vicenda è nota, più o meno: Noè, discendente di Adamo, è chiamato da Dio (nel film sempre “Egli” o “Il Creatore”) a costruire un’Arca capace di accogliere una coppia di tutti gli animali del creato (nel testo sono sette per gli animali puri, una per gli impuri. Tra gli impuri, per dire, ci sarebbero anche i cavalli) e la sua famiglia per salvarli dal diluvio di quaranta giorni e quaranta notti che si sta per abbattere sull’umanità come punizione per la corruzione. Nel film si aggiunge a Noè, la moglie e i tre figli Sem, Cam e Jafet, l’orfana Ila che diventa la moglie di Sem, mentre il discendente di Caino, Tubal-Cain (che compare sì nella Genesi, ma qualche generazione prima di Noè e solo per dire che fu padre della metallurgia), guida le tribù degli uomini nel tentativo di impadronirsi dell’Arca e salvarsi.

In qualche modo, si è dalle stesse parti del Troy di Wolfgang Petersen per la libertà con cui ci si accosta al materiale originario. Come per l’Achille biondo e suo cugino Patroclo, non è la libertà rispetto ai testi originali a non convincere. Il materiale dell’epica, per quanto risulti più difficile accettarlo con un immaginario come quello biblico comunemente accostato alla religione, quindi al sacro, quindi all’intoccabile, è da sempre oggetto di modifiche e aggiornamenti nella tradizione, e non può essere altrimenti. Quello che non va è che proprio nelle premesse che il film si propone di affrontare inventando di sana di pianta ci sono le debolezze maggiori, le contraddizioni, la retorica. Il male dell’uomo come natura e vocazione che è propria dei figli di Caino, la donna forte che consiglia, le turbe adolescenziali del figlio in preda agli ormoni, sono temi che vengono sviluppati senza preoccuparsi dell’aderenza storica ancor più che mitica, proponendo modelli dell’oggi come se potessero andar bene per la preistoria dell’uomo.

Proprio le libertà che si concedono Aronofsky e Ari Handel in scrittura (scuola ebraica per entrambi) lasciano capire, ancora di più che la resa stessa, la volontà di ricondurre la vicenda del diluvio a un immaginario fantastico che travalica il religioso. L’inserimento di elementi magici, dai poteri taumaturgici di Matusalemme, che nelle intenzioni dovrebbe essere il grande guerriero dei testi apocrifi ma appare come un bizzarro incrocio tra Yoda e Gollum, alle pietre esplosive usate per abbattere i Giganti – la licenza più grande: angeli caduti sulla terra per aver disobbedito a Dio e aver difeso gli uomini, che aiutano Noè a costruire l’Arca (ma «c’erano i giganti sulla terra a quei tempi, ed anche dopo, quando i figli di Dio s’accostarono alle figliuole dell’uomo e queste partorirono loro dei figli», Genesi, 6,4) – fino alla trovata peggiore, la presenza del clandestino carnivoro sull’Arca, rimasto invisibile a tutti se non al ribelle Cam per nove mesi e pronto a rigenerare la Terra al posto di Noè per perpetrare il male, collidono con lo spirito che idealmente ispirava Aronofsky nel progetto originario.

La volontà del regista era quella di rendere la Genesi, e l’episodio dell’Arca, come non era mai stata raccontata, lontano quindi dall’idilliaca immagine degli animaletti felici, l’arcobaleno, la colomba e la brava gente che si salva, ma recuperando l’idea della punizione necessaria per la corruzione invincibile dell’animo umano. Uomini ancora come bestie, fermi in uno stato di evoluzione che non è ancora civiltà, su un pianeta che non è ancora definito – e infatti i continenti sono brevemente mostrati prima della deriva –; questi sono i figli di Caino che il Creatore vuole annegare lavando il mondo. Noè si contrappone come discendente di Set, terzo figlio di Adamo ed Eva, che vive nella giustizia della legge in maniera integrale, non mangia carne non per pretese ambientaliste di Aronofsky ma perché «ecco, io vi do ogni sorta di graminacee produttrici di semenza, che sono sulla superficie di tutta la terra, ed anche ogni sorta di alberi in cui vi sono frutti portatori di seme: essi costituiranno il vostro nutrimento» (Genesi, 1,29), portando quindi in sé l’integrità dell’armonia con la natura così come è concepita dal Creatore.

 

 

Questo spirito esegetico si scontra inevitabilmente con la stringatezza del testo biblico, che si sofferma in soli cinque capitoli sui novecentocinquant’anni della vita di Noè, e l’integrazione con altri testi della religione ebraica non basta. È a questo punto che subentra la fantasia fumettistica (ne è stata fatta una graphic novel scritta dallo stesso Aronofsky) e modernista che inserisce l’antagonista diretto, amplia e accresce il ruolo della moglie, inventa la trovatella Ila e di conseguenza l’amore giovanile e la gelosia tra fratelli, introduce battaglie, si mostra ridicola nelle svolte sentimentali e piatta e scialba nel disegno psicologico.

L’unico personaggio debitamente sviluppato è Noè, e non poteva essere altrimenti. Costretto a essere esecutore del disegno divino, deve lasciar morire l’uomo, di cui riconosce il male, caricandosene la colpa. Interpreta i segni del Creatore dalle visioni, non ha le certezze date da un vero dialogo e finisce isolato dalla sua famiglia che non lo capisce, solo con la sua missione enorme e terribile. È un giusto che deve essere spietato, chiamato a obbedire al suo Signore muto contro l’uomo, contro la propria famiglia, contro se stesso. Russell Crowe ha il carisma adatto per caricarsi follia e pazienza, solitudine e titanica vocazione al martirio.

Che cos’è Noah, in conclusione? Lontano come più non potrebbe essere dalla tradizione del peplum biblico del cinema di mezzo secolo fa, vicino piuttosto al Signore degli anelli (tra l’altro, sono già stati tirati in ballo titoli ironici come Il signore degli agnelli e Apocalypse Noah) e al Batman di Nolan, il film di Aronofsky è un cine-fumetto catastrofico che si propone di spettacolarizzare il materiale biblico rendendone la cupezza implicita come già era stato fatto con il discusso La passione. Senza scivolare nella pornografia splatter del film di Gibson, Noah non riesce a coniugare sguardo d’autore e spettacolo, accontentandosi di correre lungo binari sicuri su cui lo spettatore possa viaggiare senza sobbalzi mentre mangia pop-corn con gli occhialetti 3-D. È il primo momento della riscoperta hollywoodiana della Bibbia: Ridley Scott è atteso alla prova di Exodus sulla vita di Mosè interpretato da Christian Bale. Molto bella la fotografia di Matthew Libatique, soprattutto prima del diluvio.

 

(Noah, di Darren Aronofsky, 2014, fantastico, 138’)

 

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