“Smith&Wesson”
di Alessandro Baricco

Ambientazione esotica per un storia italiana

di / 24 febbraio 2015

Lo ammetto: non mi accontento della facile comunicabilità del linguaggio medio né dei facili camuffamenti drammaturgici da teatro dell’assurdo involontario. Ogni adescamento anche vagamente commerciale mi riesce insopportabile.

Il nuovo romanzo di Alessandro Baricco, Smith&Wesson (Feltrinelli, 2014), è una storia che non si capisce bene come classificare.

Ha l’andamento della confessione diaristica a due voci, quasi che i protagonisti fossero gli imputati di un ipotetico tribunale della coscienza.

L’ipertrofia del dialogo dal ritmo lento e noioso toglie ogni spessore psicologico ai personaggi facendone dei pupazzi ventriloquamente fatti parlare dal loro cinico creatore.

L’ambientazione esotica nei pressi delle cascate del Niagara nel 1902 (ma data la trama l’azione potrebbe svolgersi in qualsiasi anno del passato, presente o futuro), nonché i nomi americanizzati dei protagonisti, Smith e Wesson, anzi Smith&Wesson proprio come la società produttrice di armi, o anche visti da una più fanciullesca angolazione, stando ai nomi di battesimo, i più famosi gatto e topo, Tom&Jerry, appaiono come un malriuscito tentativo di dare un respiro internazionale a una storia che di internazionale ha ben poco, piuttosto si rivela quanto mai prosaicamente e tristemente italiana. Si tratta infatti della storia di un’impresa (impresa!?!) maldestramente fallita.

Smith è un metereologo che annota su un taccuino pieno di tabelle le variazioni climatiche del passato così come si palesano nei ricordi degli intervistati. Voi direte e come fa la gente a ricordarsi del tempo che c’era, che ne so, il 17 febbraio del 1899?

Semplice, inevitabilmente rimangono impresse solo le condizioni atmosferiche legate a un particolare evento, un matrimonio, un battesimo, una caduta rovinosa, etc.

A ben vedere si tratta di un inutile tentativo di basare le previsioni del tempo su statistiche poco attendibili.

Wesson invece fa il pescatore. Non un pescatore di pesci invischiato in affari ittici bensì di cadaveri.

Un assassino? Magari, almeno avrebbe dato un risvolto noir alla storia. E invece non è proprio il tipo: «Ogni quattro mesi sto a letto per cinque giorni, serve a rimettere a posto gli organi interni, la posizione orizzontale li riporta in equilibrio, sto a letto e mangio passato di fave. Mi alzo solo a pisciare ma di rado. E a scaldare il passato di fave»

È un pescatore di corpi dei suicidi che scelgono come scenario del loro gesto estremo le cascate del Niagara.

Le battute fra i due protagonisti si alternano senza soluzione di continuità contrappuntate di tanto in tanto da un contraltare femminile, Rachel Green, una ventitreenne aspirante giornalista alla ricerca di uno scoop con cui sfondare.

In mancanza di eventi sensazionali la ragazzina decide di inventarne uno lei e viene indirizzata dalla signora Higgins, vera e proprio dea ex machina, dai due compari, Tom e Jerry, o meglio Smith&Wesson.

I due le propongono allora di lanciarsi dalle cascate dentro una botte da birra fidando di andarla a ripescare in un punto preciso in cui le rapide e la corrente dovrebbero indirizzarla secondo la mappa realizzata dal padre di Wesson in un giorno di straordinaria desertificazione del letto del fiume.

Lungi da me privare il lettore del gusto di scoprire come va a finire questo dozzinale spettacolo similcircense, non svelerò certo l’epilogo.

Questo del resto è lo stile baricchiano, prendere o lasciare. Ci vuole tanta buona volontà e pazienza. Si aspetta speranzosi che prima o poi la storia decolli, che le tristi battute fra Smith e Wesson da pietosamente comiche diventino pirandellianamente umoristiche. Ma alla fine si ringrazia solo l’autore della concisione (un centinaio di pagine scritte con caratteri da ipovedente e ampi margini).

(Alessandro Baricco, Smith&Wesson, Feltrinelli, 2014, pp. 108, euro 10)

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LA CRITICA

Quando ero piccola avrei voluto fare l’insegnate e come il professore d’italiano dei Ragazzi della terza C fare il gesto del tre alla beata ignoranza di un Bruno Sacchi qualunque.

VOTO

3/10

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