“Protestantesima” di Umberto Maria Giardini

Una nuova attenzione alla realtà che lo circonda e una maggiore varietà sonora nel nuovo, brillante, lavoro dell’ex-Moltheni

di / 27 febbraio 2015

A due anni e mezzo da La dieta dell’imperatrice (2012) e a due dall’EP Ognuno di noi è un po’ Anticristo (2013), ecco il secondo, ruvido, album firmato Umberto Maria Giardini.

Rispetto al lavoro precedente è cambiata la band di accompagnamento, fatta eccezione per il sempre fedelissimo Marco Marzo “Maracas” alle chitarre elettriche; ci sono Giulio Martinelli alla batteria e Michele Zanni al basso e tastiere (rhodes e moog).

Il disco è stato registrato allo studio Sotto il mare di Verona da Antonio “Cooper” Cupertino, e la sua sapiente mano si ritrova nella scelta dei suoni, molto attenti e calibrati.

Protestantesima prosegue il graduale percorso di allontanamento da Moltheni, quella “eutanasia artistica” come lui stesso l’ha definita, iniziato a dire il vero già con I segreti del corallo (2009), ultimo album prima della scelta di legarsi musicalmente al proprio nome di battesimo; o sarebbe meglio dire, prosegue con il graduale processo di evoluzione musicale e artistica che lo ha sempre contraddistinto, catalogandolo quindi come “lontano” dal primo Moltheni, ma vicino all’ultimo.

Questo secondo album quindi troverà d’accordo chi ha sempre apprezzato la cifra stilistica di Moltheni, e non farà gridare al miracolo chi ha sempre trovato eccessivamente pesanti o stucchevoli i testi e la prosa del cantautore marchigiano.

Giardini infatti anche in quest’ultima sua fatica pone molta attenzione alla metrica e alle assonanze, in favore di quei suoi accostamenti di parole affascinanti, a volte privi di senso, ma decisamente intriganti; come i suoi ossimori, i suoi fortuiti cambi di ambientazione e le sue ruvide, quanto efficaci, liriche. A tratti nei testi troviamo quella sua crudezza, quella ricercata asprezza mirata proprio a sottolineare un concetto, una figura, o anche solo ad attirare l’attenzione dell’ascoltatore («ma che faccio più male di un palo infuocato nel culo» o ancora «torno quando andrà di moda il porno a scuola»); spesso è una scelta vincente, a volte un po’ meno e raramente risulta in una prosa troppo complessa e inutilmente brutale.

Rispetto ai lavori precedenti, invece, cambiano gli argomenti da lui cantati; o meglio, se negli album passati a farla da padrone erano le tematiche sentimentali e i loro contrasti, in questo nuovo album c’è una maggiore attenzione alla società e alla realtà che lo circonda, e meno centralità al proprio stato d’animo.

Musicalmente Protestantesima spazia da brani rock a ballate elettriche, esibendo sonorità alla Johnny Marr e liriche alla Morrisey, ora in stile Radiohead, ora un po’ Manuel Agnelli, passando anche per brani più intimi, sposando spesso con successo melodia e testi. Nonostante l’uso della sua Telecaster e delle chitarre elettriche di Maracas sia ancora predominante, c’è una maggiore varietà di accompagnamenti che lascia ampio spazio a tastiere, pianoforte e archi; la chitarra acustica, molto presente nei precedenti lavori, viene messa da parte e compare solo in alcuni brani. Il tutto in favore di un suono più omogeneo, rotondo, ricco di pause e ripartenze, e di qualche cambio di registro.

La prima traccia, nonché title-track, apre con un bel mix di chitarre acute, batteria quasi tribale, su uno sfondo di tastiere e archi, esercizio perfetto di quella omogeneità e rotondità di suono di cui sopra; un pezzo rock d’autore: «Ridere non mi fa affatto bene, a chi conviene, a chi invece no».

Ancora percussioni tribali accompagnano il secondo brano, “C’è chi ottiene e chi pretende”, in cui Giardini canta malinconicamente un amore andato male, su un letto di tastiere e arpeggi di chitarra elettrica, in uno dei testi meglio riusciti dell’album: «perché è come pretendere, come pretendere, non mi davi la ragione che era mia».

Sulla stessa linea tematica e di accompagnamento troviamo “Molteplici riflessi”, mentre nella bellissima “Il vaso di Pandora” Giardini canta della scena musicale, e non solo, milanese; la Milano da bere, la Milano della cocaina, dei vizi, dell’apparire, del denaro. Il tutto su sonorità che partono dagli Smiths, per poi finire in un crescendo strumentale e vocale di tutto rispetto, strizzando anche l’occhio a Manuel Agnelli.

Nella gentile, quanto tenue, “Seconda madre” Giardini canta una malinconica poesia, con un vestito in continuo divenire di chitarre acustiche ed elettriche, percussioni essenziali, chitarra slide e piano; forse il brano migliore dell’album, certamente uno dei migliori della sua carriera. «e allora puniscimi seconda madre, chi guarda tanto per chi in fondo non vede, mangiami il cuore se vuoi poi vomitalo, in fondo sì siamo noi puttane in internet».

La sesta traccia, “Amare male”, con le sue sonorità decisamente Radiohead precede le meno efficaci e forse troppe statiche “Sibilla” e “Urania”.

L’ultimo brano, “Pregando gli alberi in un ottobre da non dimenticare”, è una ballata elettrica che parla della condizione dell’uomo moderno («che cerca virtù») e della sua triste condanna all’insoddisfazione.
C’è anche una decima traccia, una ghost-track, l’acustica e delicata “6 aprile”, che parla del terremoto all’Aquila, mentre un theremin sullo sfondo “tocca” note dolcissime.

Il risultato finale di questo secondo album post “eutanasia artistica” è ottimo e conferma ancora una volta Giardini come uno dei pochi, grandi, cantautori italiani in circolazione. Valide melodie sostenute da una buona varietà di suono fanno da cornice, esaltandole, alle belle liriche di Giardini; liriche di rado non efficaci e solo raramente “complesse”, segno di un ulteriore passo avanti nella maturità artistica del cantautore bolognese d’adozione.

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LA CRITICA

Due anni di silenzio per tornare come artista ancora più maturo e consapevole di sé, Giardini ci regala un bellissimo lavoro che spazia dalla sua malinconica malinconia sentimentale a sguardi disillusi sulla nostra società

VOTO

7,5/10

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