“Mia madre”
di Nanni Moretti

La perdita e l’inadeguatezza secondo Nanni Moretti

di / 14 aprile 2015

Margherita è una regista impegnata a cui viene chiesto spesso cosa voglia dire sul presente con i suoi film. Ne sta preparando uno su una fabbrica occupata dagli operai per protestare contro l’acquisto da parte di un imprenditore americano. Non va tutto bene: la star del film, un attore arrivato da Hollywood, dimentica le battute e sta facendo ritardare tutto. Non è questo, però, il vero problema di Margherita. Sua madre, Ada, ex professoressa di latino al liceo, sta morendo lentamente in un letto di ospedale e lei prova a starle accanto meglio che può. Non riesce, però, a essere come suo fratello Giovanni, che ha lasciato il lavoro per stare sempre con la madre, che le cucina la cena da portare in ospedale, che conosce tutti gli aspetti della sua vita, che capisce e si rassegna molto prima alla fine. Margherita è diversa. È forte sul lavoro, comanda, impone, ma nella vita è ancora figlia, fragile e impreparata alla perdita.

Dopo La stanza del figlio Nanni Moretti torna a parlare di dolore ed elaborazione con Mia madre, dodicesimo film della carriera del cineasta romano, scritto con Francesco Piccolo e Valia Santella e il contributo al soggetto delle scrittrici Gaia Manzini (La scomparsa di Lauren Armstrong, 2012, Fandango) e Chiara Valerio (Almanacco del giorno prima, 2014, Einaudi).

Un dolore diverso – quattordici anni fa era la morte di un figlio a distruggere il quotidiano della sua famiglia, oggi è il declino inesorabile di una madre a condizionare la vita di due figlie già adulti – che nasce da due bisogni diversi: da una parte esorcizzare una paura, quella di Moretti genitore di perdere il figlio; dall’altra il bisogno di oggettivare la realtà, di porre al di fuori di sé la perdita reale della madre, un dolore più universale e destinato a tutti, a un certo punto della vita, che Moretti ha dovuto affrontare nel 2010, durante il montaggio di Habemus Papam.

C’è un collegamento necessario con l’autobiografia: Mia madre è la sublimazione cinematografica del dolore personale di Moretti, è il racconto privato della perdita e della sua costruzione. Perché, proseguendo il parallelo con La stanza del figlio, qui non si è di fronte a un trauma improvviso, all’incidente che sconvolge l’equilibrio, ma alla discesa graduale, che lascia il tempo – apparente – per prepararsi, per fare i conti con il passato e con il futuro che verrà. È fortemente personale, si è detto, e proprio per questo Moretti ha sentito il bisogno di chiamarsi in disparte. Perché, ancora di più dei suoi ultimi lavori, qui Nanni non è il protagonista, non si ritaglia momenti centrali. È lì, a margine del dolore, in seconda linea, nei panni del fratello Giovanni, probabilmente in una delle sue migliori interpretazioni della carriera. Asciutta, è il termine che viene in mente per definirla subito.

Al centro c’è la Margherita di Margherita Buy (bravissima anche lei), la regista impegnata con i tic e le fissazioni che anche gli spettatori più distratti hanno imparato a riconoscere come propri del vero Moretti, nei tanti momenti di cinema nel cinema e di mostra di sé che sono sparsi nella sua filmografia (da Sogni d’oro alla coppia Caro diarioAprile). Margherita è inadeguata, questo è il concetto chiave su cui Moretti insiste anche presentando il film nelle interviste. Inadeguata a rapportarsi con il dolore della perdita, a rassegnarsi definitivamente, con la malattia della madre, a non essere più figlia, a essere e dover essere lei, la madre, per la figlia adolescente di cui non sa molte cose. La malattia, il dolore, mostrano Margherita per quella che è sempre: una persona fuori posto, che mentre si dedica al film pensa alla madre, che mentre è con la madre parla del film. Non è egoismo, è paura.

Il costante senso di inadeguatezza porta Margherita a confondere i momenti tra di loro, a sovrapporre il sogno con il reale, il ricordo con le paure.

Le certezze della vita stanno scivolando via con il crollo della colonna portante. Margherita è stanca di dover dare un senso alle cose che fa, di dover interpretare la realtà per la stampa, e non è pronta ad affrontare il mondo da sola, anzi. Nel momento in cui tutto inizia a essere portato via dalla marea, quando simbolicamente la casa in cui vive sola, in attesa del ritorno della figlia dalla settimana bianca, si allaga, si rifugia nel grembo della casa della madre, tra le pareti in cui è cresciuta, non ancora pronta a prendere il posto che era stato della madre nel letto ma raggomitolandosi sul divano, impreparata a prendere il suo posto.

Ponendo una donna al centro di Mia madre, Moretti riesce a elevare il suo dolore particolare a dolore universale, a raccontare un momento personalissimo come un fatto oggettivo. Ha raccolto, dopo anni, l’invito di Dino Risi, facendosi da parte e permettendo di vedere il film, o, per dirla come Margherita, è riuscito a mostrare il personaggio e l’attore allo stesso tempo, uno accanto all’altro. Pur apparendo di meno rispetto ai suoi lavori precedenti, pur non ritagliandosi momenti di gloria megalomane come nel finale di Il caimano, Mia madre è il film più personale di tutta la carriera di Moretti, il film in cui la sua presenza è più diffusa.  Il suo cinema, il suo stile, è sempre presente. Ci sono molti degli elementi morettiani che fanno la gioia degli appassionati e il dispiacere degli oppositori. Perché se la Buy è il Moretti regista, la star di John Turturro (anche lui, bravissimo), ha i momenti isterici del primo Moretti/Michele Apicella, quelli a cui tocca il compito di alleggerire, di far ridere, perché in Mia madre si ride anche, e tanto.

Non è solo questo, però. La presenza è nei dettagli, nei libri – i veri libri della vera biblioteca della vera madre di Moretti, secondo una tradizione scenografica che qui assume anche il valore di omaggio –, nella simbologia onirica, nella paura e nella fragilità. C’è la riflessione sul ruolo del cinema e dei cineasti nella società, su se stesso come regista, con un’autoanalisi tra l’ironia e la ferocia, perché «il regista è uno stronzo, non bisogna mai dargli retta» lo dice Margherita, ma poi Giovanni aggiunge, parlando con Turturro: «Fate sempre quello che dice la regista».

E c’è la capacità di scavare nel dolore, senza compiacimento, senza sadismo, senza esibizionismo, con la lucida tenerezza di chi, ancora adesso, pensa di essere inadeguato e solo senza sua madre.

(Mia madre, di Nanni Moretti, 2015, drammatico, 106’)

  • condividi:

LA CRITICA

Moretti torna sul tema della perdita quattordici anni dopo La stanza del figlio. Lo fa mettendo tanto di se stesso e allo stesso tempo facendosi da parte, raccontando la forma particolare di un dolore universale. Mia madre è grande cinema, uno dei momenti più alti della sua carriera.

VOTO

9/10

Comments

News

effe

“effe – Periodico di altre narratività” numero dieci

“effe – Periodico di altre narratività” numero dieci

Archivio