“L’esatto contrario”
di Giulio Perrone

L'esordio narrativo del giovane editore romano è nel segno del thriller

di / 4 giugno 2015

Il suo nome campeggia da dieci anni; si appoggia bene sulle copertine, le trova soffici anche se rilegate. Stavolta però si è trasferito. Ha scelto di riposizionarsi. Non più dimessamente in fondo, o asciugato da sigillo sulla costa. Stavolta si affaccia dall’alto. Cubitale, innegabile, con l’istantaneo monopolio degli sguardi in transito. Giulio Perrone non edita, in questa occasione. Non garantisce per le altre storie, ma propone la propria. Si prende la briga di raccontare e il risultato è L’esatto contrario (Rizzoli, 2015)

Esperimento tra il thriller e il noir in cui riversa molto di ciò che gli appartiene. La voce è quella di Riccardo Magris, trentenne scamiciato appena reduce da una rottura emotiva. È un ritratto sincero il suo, quello di un ex-giovane ossessionato dalla Roma e intento a vivacchiare, rabberciando quanto basta per procacciarsi la giornata, lavorando come speaker in radio e redattore in un giornale. Ma non c’è nemmeno un granello che brilli. Il programma radiofonico è incentrato sugli orrori calcistici e i talenti sgonfi mentre TuttoGiallo non è altro che un ricettacolo di scandali di cronaca, meschina polveriera di casi succulenti cesellati ad arte. Una vita che zoppica, declinando la sconfitta nella smorfia dei suoi passi.

Riccardo coabita con altri due ragazzi che come lui per sopravvivere strappano lembi di resistenza. Galleggiano a modo loro, chi leggendo Proust, chi frustando dei frustrati, attutendo nel lattice un po’ di squallore. Sbracciarsi parecchio per muoversi il minimo, esecutori eccellenti del mestiere di «annacarsi», come lo chiamerebbe Roberto Alajmo nella sua “sicilitudine”.

Ma mentre è intento a riassestarsi dopo l’addio di Gaia, una notizia al tg squarcia di netto la sua indolenza indomita. Muore, per dichiarato suicidio, il professore accusato di aver ucciso Giulia dieci anni prima. E Giulia non è solo una ragazza sfortunata, catapultata sulla bocca della stampa. Giulia è stata sua, per un tempo breve e ancora non spento. Frequentavano lo stesso ateneo e lui era lì quando lei piombò a terra nel suo stesso sangue. È rimasta così per Riccardo, confinata in quel buio, nello stagno di quella paralisi. Finché un’altra morte non sveglia un sospetto. Non può esimersi, non può fare come al solito. Lasciare che il futuro annacqui quel nome. Lo ha fatto con Gaia, con la sua “carriera” che annaspa senza meta. Ma forse non è poi così immobile. Potrebbe trarne anche un guadagno, se riuscisse davvero a sentirsi sciacallo, se, sfruttando la vicinanza alla tragedia, la vendesse all’opificio d’indecenze che ancora qualcuno definisce giornale. Ci prova, ma la disonestà non gli calza affatto; lascia scoperte le spalle e strizza la coscienza. Non gli rimane che investigare per se stesso, per capire, per sapere, per pacificarsi con l’inspiegabile. E qui comincia a smatassarsi la sua indagine, in una Roma periferica e brulicante di occhi.

San Lorenzo con le botteghe bangla e l’attività insonne, la congestione di via Nomentana, la postura più sobria di Corso Trieste. Stravaccata e febbrile, imbottita nel suo traffico, la città è la cornice perfetta per chi rimbalza da una domanda all’altra, perdendo sempre qualche pezzo: «Non sono lì per rivivere il sapore di una storia che non è stata o per gratificare il mio ego […] Sono lì perché devo saperne di più, se davvero c’è qualcosa che vale la pena di sapere».

Sono tanti gli incontri in cui s’impantana, cercando a volte invano di rimanere in piedi. E soprattutto c’è Miranda, la sorella di Giulia, il fantasma di una memoria che prude fin troppo, che lo costringe a sgrassare la sua inettitudine. Perché è chiaro, Riccardo è lontano miglia umane e letterarie dai detective granitici di Don Winslow, col pugno facile e la battuta fendente o dal machismo ingombrante di Jo Nesbø.

Altri distretti, altre fibre. Riccardo, da perfetto controeroe sfiduciato, s’inscrive di diritto nel plotone più modesto della sua generazione, soprattutto se italiana. Quella di capitani del pareggio, di reduci stellati della disillusione. È un coro affollato, in cui si accalcano da anni i protagonisti dei romanzi di Christian Frascella (Mia sorella è una foca monaca), Fabio Bartolomei (Lezioni in Paradiso), Marco Presta (L’allegria degli angoli), Pulsatilla (La ballata delle prugne secche), Chiara Moscardelli (Volevo essere una gatta morta) e Antonio Incorvaia (Generazione mille euro) o delle graphic novel di Zerocalcare e Nuke.

Flotte di vite strascicate, a cui è stato promesso un pasto infinito e che invece devono bearsi ogni giorno di scampare al digiuno. Brandelli di stipendio, brandelli di contratto, paccottiglie che raccolte e incollate non compongono mai un obiettivo intero. Adolescenti per obbligo e non solo per passione. Che non vanno, non vengono, ma si barcamenano. Che scoprono d’essere invecchiati nei vestiti che forse ancora paga papà. Che constatano di non essere più giovani senza essere mai stati adulti.

Giulio Perrone, anche in quanto editore, questo mondo lo conosce bene. E la struttura del thriller, fluida, lineare, di lettura immediata, è un’occasione ideale per tracciare il loro campo d’azione.

Con un linguaggio asciutto, elementare, autoironico e senza alcuna pretesa di sofisticazione, L’esatto contrario può rappresentare il primo episodio di una serie d’inchieste, in cui più che risolvere il caso, si vuole sapere come riuscirà Riccardo a uscire più vivo della vittima.

 

(Giulio Perrone, L’esatto contrario, Rizzoli, 2015, pp. 234, euro 18,50)

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LA CRITICA

Primo esperimento letterario di chi finora ha firmato libri “solo” pubblicandoli. Un thriller romano costruito con schiettezza, ironia e semplicità.

VOTO

7/10

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