“Storia di uno scrittore di storie”
di Sherwood Anderson

Il viaggio di un autore americano attraverso il suo universo immaginativo e il mondo reale.

di / 17 giugno 2015

In un regime di storytelling come l’attuale ci sarebbe quasi da sottrarsi preventivamente all’elogio di «uno scrittore di storie» quale si definiva Sherwood Anderson (1876-1941), se non fosse che per fortuna abbiamo a che fare con un grande narratore il quale – fortuna ancora maggiore – aveva qualcosa da dire. E da fondare: nientedimeno che una genia di superbi scrittori americani quali quelli che occupano la scena della prima metà del secolo scorso. Sì che se la sua autobiografia si dichiara da subito un testo ambiguo, in cui invenzione e registrazione di dati di “realtà” s’intrecciano in maniera indecidibile, ciò rassicura il lettore di non trovarsi davanti a una truffa ma a un esempio di illuminato candore: quello di uno scrittore che invece di spacciare la menzogna per vero, ammette che non può fare a meno di inventare. La differenza sembra poco ma è tutto. Vero che Anderson non avrebbe potuto nemmeno volendo sfuggire alla malia del racconto: il padre, un uomo sui generis incapace di abbracciare il sogno americano nella sua versione hard, quella di far soldi e crearsi un nome in una comunità di uomini fattivi, concreti, pragmatici, sbarca il lunario in modi improbabili e sostituisce una realtà di fallimenti con un’affabulazione continua. Fuori dal mondo, racconta balle ogni giorno assecondando il proprio temperamento di artistoide «in una terra e in un tempo» in cui questa roba «non poteva in alcun modo essere compresa dai suoi coetanei». E lui, Sherwood, nel volume appena tradotto da Nicola Manuppelli per Mattioli 1885, Storia di uno scrittore di storie, annota con lo humour che gli è tipico di essere un figlio degno del padre.

Una volta morta la madre, nessuno più nella numerosa famiglia è in grado di tenerla in piedi. Anderson è costretto a lavorare. In un’epoca di invasamento industriale, mentre negli Stati Uniti di fine Ottocento arrivano biciclette e automobili, si guadagna da vivere in fabbrica; e immagina di cimentarsi col mestiere di attore prima di tentare l’arte del racconto. La cosa ha da fare con una specie di vanità, di competizione con quel fanfaluche del padre. Entrambi hanno bisogno di un pubblico. Si direbbe una motivazione poco nobile per diventare uno scrittore; ma Anderson tale lo era «di costituzione» vivendo come dice a più riprese sia l’infanzia che l’adolescenza all’interno di un’immaginazione fuori controllo.

Trasferitosi a Chicago, la faccenda si fa seria (Chicago, che lasciò un segno importante anche sul magnifico Saul Bellow, ritorna occupando tutta la scena in un’altra uscita Mattioli di queste settimane, Meravigliosa Chicago, di Thedore Dreiser, altro maestro americano, della stessa generazione di Anderson: ma qui sono solo piccoli estratti dall’autobiografia dell’autore di Una tragedia americana). Anderson prova varie occupazioni ma finalmente la letteratura smette di essere un sogno a occhi aperti per diventare il banco di prova di un esercizio duro quanto entusiasmante – a meno di non chiamare scrittura la pubblicità, in cui pure si cimentò ma ben conoscendo la differenza (chissà se Baricco lo sa). Accade tardi ma quando accade, dopo essersi sposato, Anderson dà alla luce racconti di una bellezza rara (specie quelli di Winesburg, Ohio). Di lì in poi l’imperativo della sua vita è trovare il «cuore del racconto», senza «farsi rincitrullire dalla questione dello stile» (difatti non arriva a Faulkner che pure gli è profondamente debitore). Dentro, storie di gente semplice, contadini (l’influenza giovanile dei russi), e personaggi più vicini al suo mondo (anche famigliare: «se le persone non vogliono che le loro storie siano raccontate allora fanno bene a tenersi lontane da me»). In verso contrario all’America per la quale l’unica direzione lecita sembrava «il progresso materiale e industriale», un narratore di razza ne individua l’animo inquieto, umoristico e drammatico.

(Sherwood Anderson, Storia di uno scrittore di storie, trad. di Nicola Manuppelli, Mattioli 1885, pp. 303, euro 15,90)

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LA CRITICA

Un’autobiografia, quella di Sherwood Anderson, in cui i termini realtà e finzione smettono di avere un significato univoco e s’intrecciano in una storia che è insieme la propria e quella di un grande paese fra Otto e Novecento.

VOTO

7,5/10

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