“Il richiamo del corno”
di Sarban

La storia di un incubo, una terribile distopia

di / 15 luglio 2015

John William Wall merita di entrare in un ideale regesto della letteratura distopica. Il richiamo del corno (scritto nel 1952) è un romanzo di grande presa, una storia che riesce benissimo nell’impresa di sospendere l’incredulità e catturare il lettore in una discesa agli inferi dell’umana possibile ferocia – quella tipica della specie che sfonda il necessario biologico per finire nel gratuito dell’immaginazione. Nera, va da sé, criminale, ma estetizzante. Perché gli aguzzini che dominano il mondo inventato dallo scrittore (sognato dal narratore) tanto più godono del male che fanno quanto più esso è paradossalmente inscritto in una speciale declinazione della grazia: quel miracolo costruito dalla bellezza in movimento, privato però dell’etica schilleriana della libertà. Il narratore, l’ex tenente Alan Querdilion, prigioniero inglese dei nazisti, tentando la fuga finisce fulminato dai raggi Bohlen. Non muore ma si ritrova proiettato cento anni più avanti. Il nazismo trionfa, e il conte che comanda il territorio in cui si  ritrova il nostro, trascorre il suo tempo riesumando riti antichi come quello della caccia in una versione che – il lettore può immaginare – annovera fra le sue vittime magnifiche femmine: di umani. Schiave, ovvio, e non ariane. Bellissime, conciate però come felini, o uccelli, lasciando la più parte dei corpi nuda, esaltano la loro bellezza addestrata nella corsa, nei tentativi di fuga – programmati dall’alto per raggiungere vertici abissali di eccitazione. Crudeltà e sadismo estetizzati secondo quella logica nazista che lo scrittore, il diplomatico John William Wall che preferirà il nom de plume Sarban, aveva ben intuito. E di cui, si insinua da più parti, subiva il fascino.

Burocrate al servizio della corona inglese, in giro per il mondo per decenni, soprattutto fra Mediterraneo e Medio Oriente, in realtà Sarban ha una vocazione nascosta, un’attrazione micidiale per le favole e l’Oriente, ma sospettiamo anche per Allan Poe e il mistero in generale – fors’anche per quel romanzo gotico che non casualmente era nato dalle sue parti. E fu Kingsley Amis, il padre di uno dei più grandi scrittori viventi (Martin, certo), a riconoscere la bontà di quel libro. Che l’editore Adelphi ha inviato in libreria poche settimane dopo un altro romanzo distopico, Epepe, dello scrittore ungherese Ferenc Karinthy, grande viaggiatore, traduttore di Moliere e Machiavelli, figlio del più noto Frigyes tessitore, Ferenc, di un altro inferno, a metà fra una rilettura di Kafka e una prefigurazione di certo Saramago, ma riuscito solo in parte. Epepe, dopo un ottimo avvio rischia la ripetitività di un girare a vuoto insensato costruito con eccessiva fiducia sull’analogia con la storia del suo protagonista, laddove Sarban da subito cattura l’attenzione del lettore con una verticalità del personaggio centrale, incredulo, angosciato dal disorientamento come si vuole in un racconto distopico che si rispetti, ma artefice di un’avventura potente in cui non si rigioca soltanto l’eterno conflitto fra il bene e il male, fra il cacciatore e la preda, ma i due termini adombrano più inquietanti implicazioni morali.

(Sarban, Il richiamo del corno, a cura di Roberto Colajanni, con una nota di Matteo Codignola, Adelphi, 2015, pp. 191, euro 18)

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LA CRITICA

Un breve romanzo distopico su quella che avrebbe potuto essere la distopia più terribile della storia umana: un secolare governo nazista sulla terra.

VOTO

8/10

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