“La ladra di piante“
di Daniela Amenta

Un romanzo che è un lucido affresco di Roma

di / 31 luglio 2015

Avvertenza ai gentili lettori: se siete affamati d’oceano, se dal prossimo libro vi aspettate un’accorata evasione dallo zoo di cemento della vostra città, e se soprattutto la città in oggetto si chiama Roma, con le sue metro imprecanti e rigurgiti di plastica tra le scapole del marciapiede, mantenetevi a distanza di sicurezza da questo romanzo.

Non c’è frescura, non c’è riparo.  Queste pagine sono afosissime. Senza alcuna intenzione di climatizzarsi.

Il caldo ulula, il caldo inzuppa, il caldo trafigge in dialetto.

La ladra di piante (Baldini & Castoldi), esordio letterario della giornalista Daniela Amenta, stampa Roma in primo piano, con la sua arroganza schietta, il suo carisma colloso.

Su di lei fluttua un alveare di personaggi in bilico, sghembi, trascurati, senza pettine e senza accortezze.

Il titolo si deve ad Anna, ultra-trentenne ricercatrice di laboratorio ammorbata di topi e vetrini.

Rossa, magrissima, disattenta verso il suo corpo, invischiata in un lavoro cupo, in un rapporto strascicato più simile a un patto di mutua assistenza che a una relazione. Una «solidarietà tenue tra due solitudini» in cui Anna galleggia da anni, perché non è lì che cerca bellezza. La sua guarigione passa attraverso altre forme di vita. Interrate in un vaso, sdraiate come gemme in un pugno di semi, ritemprate dal miracolo dell’acqua o della potatura. Anna è in simbiosi con le piante e la sola terapia per l’ombra sbilenca del suo destino è totalmente clorofilliana. Tant’è che non può accontentarsi di comprarle, in un vicolo congiunturale come quello delle sue tasche. Anna prima le raccatta, da sommozzatrice dei cassonetti, perché sa che gli abbandoni dimorano comodi in mezzo ai rifiuti. Poi le intercetta da proprietari distratti e infine arriva a rubarle. S’infila nei cortili annoiati di piena estate, adocchia le possibili prede e si mette a trafugarle come reliquie da basilica, per condurle nel suo regno: gardenie, calle, basilico, le affilate aspidistre, ossute come spade dall’anima punk. Tutto tranne le rose. «C’è un corridoio di ficus con le foglie ovali, verdissime, come facce buone e tonte, che si piegano servili a ogni refolo di vento. Ci sono i gelsomini capricciosi che stendono rami come riccioli imprevedibili, si attaccano ai fili dei panni. (…) C’è la pianta della passione a ricordarmi che il sesso si succhia, si beve, si mangia, ha pistilli gonfi che mettono voglia. Una questione di sguardi, di pupille prima che di sentimenti». Sono loro l’unica fonte di successo, l’ecosistema di pace nel suo asfalto frustrato. Farle crescere, farle resistere, raccontandosi di farlo anche lei, più o meno a modo suo.

Ma ovviamente Anna non è l’unica a oscillare sulla scena. Sullo stesso terrazzo, anche lui impreciso e sgangherato, anche lui impiccato in un affitto famelico, si affaccia Riccardo, cinquantenne cronista sbattuto come una matricola a rastrellare dettagli di nera, spifferi di rivelazioni, il peggio del marcio del crimine romano. Sono creature precarie, con un comune bilancio d’angoscia e l’amore per i Clash. Poche amicizie per loro, nel cuore asfittico di periferia: Anna ha solo Sabino, governatore di un vivaio che alimenta con la sua astuzia contadina; e Riccardo ha un amico defunto e un vecchio capo in pensione con la sua mastodontica assistente ucraina. Il romanzo è lo snodo dei loro imbarazzi, delle loro incompiutezze, del loro inquieto trascinarsi da un giorno all’altro. Così consapevoli e inadatti, arrangiati e sconfitti.

Ma ancor di più, il romanzo è il respiro di una città. Il ritratto di un microcosmo costipato, arrancante, che porta addosso la fatica impigrita dei suoi abitanti. L’autoscatto di noi stessi sbuffanti alla fermata.

Quella Roma che già Pasolini non riconosceva, che Moretti trovava deserta e stiracchiata ad agosto.

La stessa Roma mille volte contraddetta, scivolata nei tremori radical chic di Addio, Monti di Michele Masneri, ne Il giardino elettrico di Simone Caltabellotta o nei romanzi di Walter Siti.

La stessa diversissima Roma detestabile e ineludibile, gonfia, caotica, sporca e splendente.

Tutta un corpo da annusare. Ed è difficile non ripescarsi in queste righe.

«Qui è il Sud di Roma. Il Sud fungaio, acquatico. Un fiume sopra, un fiume sotto. Un disgregarsi di muschio, di ribollire quieto, una rovina perenne, una crepa, un cadere e ricadere. Un umido. Qui, tra le Mura Aureliane, è un odore di calcestruzzo antico e di mentuccia romana, e di campagna che s’apre verso i Castelli che intravedo, vedo, oltre gli odori di treno, di rotaia, d’olio, di scambi, d’albanesi appesi, di travertino con gli odori bianchi e un grande orologio d’antrace a sud della stazione Ostiense.»

Una scrittura puntuale, intelligente, scattante, di chi tanto ha vissuto e raccolto della sua città, un po’ per mestiere, come caporedattore dell’Unità, e soprattutto per la propria inclinazione.

E poi, tra camelie, rododendri e cavalcavia, chi l’ha detto che restare in città non ci conduca comunque nella giungla?

(Daniela Amenta, La ladra di piante, Baldini & Castoldi, 2015, pp. 238, euro 16)

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LA CRITICA

Affresco lucido e sincero della città di Roma, a cui il romanzo conferisce la forza pungente del disincanto. Una storia dove ognuno ruba qualcosa, compresa l’illusione di resistere. Una storia in cui la sua geografia diventa imprescindibile.

VOTO

8/10

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