“Quello che non ti ho mai detto”
di Celeste Ng

Un esordio sorprendente

di / 28 settembre 2015

Facile. Potrebbe sembrarlo in modo lampante. Lydia non c’è. Al suo posto, nel ronzio mattutino, un piatto bianco, una sedia leggera, tutta una piccola geografia disabitata. Altrettanto facile, quasi impulsivo per me, ripensare a Elsie, la bimba svanita (e poi trucidata) nel film M – Il mostro di Düsseldorf, capolavoro d’inquietudine del maestro tedesco Fritz Lang. Anche lì, a imperversare, è un’assenza parlante, la tromba delle scale che come un gorgo ha risucchiato quel nome e i suoi passi entusiasti. Campo e contro campo che si rimpallano, a rammentare l’orrore e a scolpirlo nel suo quotidiano. Senza sangue, senza ossa, con la sola scia di ciò che manca. Anche questa vicenda esordisce così, anzi precipita alla fine, scegliendo di non essere tortuoso per poterla toccare. «Lydia è morta. Ma questo ancora non lo sa nessuno. 3 maggio 1977, sei e mezza del mattino. Nessuno sa nulla se non una semplice cosa: Lydia è in ritardo per la colazione. »

Si spalanca in questo modo Quello che non ti ho mai detto (Bollati Boringhieri, 2015), primo romanzo di Celeste Ng. Una sparizione, piantata nel petto di una famiglia “come tante”. Una madre Marilyn, un padre James, un fratello maggiore Nath e una sorella minore Hannah.

Una geometria più che diffusa e consolidata a cui all’improvviso viene a sottrarsi un lato. E logicamente, il perimetro traballa. E allora, a questo punto, per chi consuma e vende libri con una certa intensità, non possono che balenare in mente almeno altri due esempi, ancora freschi di scaffale: L’amore bugiardo di Gillian Flynn e Una famiglia quasi perfetta di Jane Shemilt. Nel primo caso una coppia, scoperchiata bruscamente dalla scomparsa della moglie. Un doppio diario che smatassa la follia di starsi accanto e slabbra ogni vano tentativo di fingersi normali. Se davvero è possibile. Nel secondo titolo, la somiglianza si fa quasi bruciante. Anche qui, in un quadro di apparente benessere, un’altra adolescente si dissolve. E la vernice si sgretola.

Poi però, inoltrandosi più giù, ingollando il corridoio di similitudini e richiami, si scopre che questa è un’altra storia. Certo, il meccanismo è il medesimo. La falla aperta da un vuoto repentino disordina il tavolo, sparecchia malamente le dinamiche in gioco e col baricentro così spettinato, ogni nucleo si mostra per quello che (spesso) è: fragile, nudo. E scontento. E la squadra familiare non è più così compatta, ma solo un ammasso di individui che vi si nascondono, col coro sommesso delle proprie frustrazioni.

Ma qui c’è anche di più. Sì, perché Marilyn e James non sono due soliti coniugi, soprattutto nell’ingessata provincia americana anni Settanta. Lei è una donna che scalcia, che non scorge in un grembiule infarinato il punto apicale della sua esistenza. È quindi una donna che vorrebbe sottrarsi al suo status. E lo fa studiando, in un ambito-enclave dell’orgoglio maschile. Si appassiona alla fisica, vorrebbe essere un medico, perché al grembiule preferisce il camice.  In lei tutto vuole differenziarsi, fiutare la corrente per nuotare in senso inverso. James, al di là del suo nome, è cinese. Tremendamente, ineluttabilmente cinese. Infiltrato di soppiatto in un Paese nuovo, che sembrava promettergli ben poco. Anche James ha sgobbato, anche lui ha respinto il suo destino. È diventato un professore, ma per ragioni opposte. Marylin vuole distinguersi, non si amalgama come un ingrediente delle ricette di sua madre; si rifiuta di credere che la sua salvezza sia un buon matrimonio.

James pagherebbe coi suoi denti per essere inserito, perché i suoi occhi non stridessero con gli altri, perché non risultassero così strizzati, segregati in una mandorla d’ombra e di distacco. L’uno riscatta i sogni dell’altra. È il terreno tanto ambito e non ancora conquistato.  Soprattutto per James che incontra Marilyn come una rivelazione. «Poi la sua risata disinvolta sfavillava in quella stanza bianca e spoglia; mentre chiacchierava trafelata, le mani si agitavano finché lui non le stringeva nelle sue, e restavano sdraiati, caldi immobili come uccellini a riposo, finché lei non lo attirava di nuovo a sé.  Era come se l’America intera lo stesse accogliendo». Tutta la sostanza della loro unione si addensa nell’affollata dialettica tra apocalittici e integrati. E tutti le colpe di James e Marylin risiedono proprio nei loro desideri, in quella astrusa forsennata proiezione di ciò che volevano in ciò che dovrebbero volere i propri figli. E tra i tre Lydia diventa in fretta il nido prediletto, il canale di scolo dei propri sogni castigati o deposti in tutta fretta.

Bersagliata da un padre che la (si) vuole popolare e da una madre che la (si) pensa emancipata e assorbita da passioni scientifiche. Ma lei è solo se stessa,sballottata nei suoi sedici anni, incorniciata da tratti orientali e da un paio di occhi azzurri. Disorientata anche dal suo viso. Costretta solo a incorporare il suo ruolo, preferendo non dire, scegliendo di lasciarsi vivere dalle battute altrui. Ed è qui che Quello che non ti ho mai detto dimostra quanto basti “poco” a generare il danno, quanto il carico di aspettative di una famiglia schiacciata dal peso sociale divenga deflagrante. E allora? Chi è davvero il responsabile di quella scomparsa? E allora la macchia si dilata e mostra radici allargate, a quella smodata fetta d’America così periferica e perbenista, in cui alla fine degli anni Settanta una coppia ibrida è ancora un fastidio, un «atto ingiusto» come lo definisce la madre di Marilyn.

Celeste Ng ci ha impiegato sei anni a scrivere questo romanzo. Ci ha versato anche la sua storia, quella di figlia di un matrimonio misto, che ormai conosce una realtà diversa, ma che con grazia e sensibilità restituisce nel testo il senso vitreo di un equilibrio difficile: quello di una famiglia respirata dall’interno.

Con i suoi sottotesti e i suoi non detti. Come il termine “razzismo”, che scorre sotto pelle senza bisogno di venire pronunciato. Come il timore mai sconfitto di un viso che in fondo non ci somiglia abbastanza.

(Celeste Ng, Quello che non ti ho mai detto, trad. di Manuela Faimali, Bollati Boringhieri, 2015, pp. 272, euro 17,50)

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LA CRITICA

Al suo debutto letterario, l’autrice realizza un’opera forte e delicata al tempo stesso. Tenace nel suo linguaggio sottile, affronta il dramma di una famiglia insolita per gli schemi sociali dell’epoca. E forse non solo.

VOTO

8/10

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