“Tutameia”
di Guimarães Rosa

Quaranta chimere dal sertão e dintorni

di / 30 settembre 2015

«Sprovvisto d’altro, annullai la mia presenza, di matita, riga e carta mi circondai la testa».

Si può leggere un libro con metodo, andando dalla prima all’ultima pagina e sentirsi soddisfatti di avere un finale tra le mani e poi si può aprire a caso un libro di storie e perdersi in una terra sconosciuta e accettare di essere un’estranea.

Dopo il successo del Grande sertão, l’unico romanzo scritto da João Guimarães Rosa e pubblicato nel 1956 che lo consacra come uno dei migliori autori brasiliani del Novecento, esce per la prima volta in traduzione italiana, Tutameia. Terze storie (Del Vecchio Editore, 2015) un insieme di quaranta brevi racconti lucidi, selvaggi, comici che interagiscono tra loro nella complessità di un linguaggio fatto di immagini desertiche, flashback di vite e ritmi frenetici.

Nelle storie di Guimarães Rosa il non detto ha lo stesso potere della parola scritta, poiché quelle stesse storie vivono di circostanze al limite del definito, in sprazzi narrativi insubordinati al tempo e allo spazio.

O meglio, lo spazio è delimitabile al sertão minerario – la regione semiarida del nord-est brasiliano che abbraccia molti stati tra cui Minas Gerais, patria dello scrittore – ma si rivela nelle esistenze degli innumerevoli personaggi che lo abitano: opprimente e consolatorio al tempo stesso, un luogo non luogo mistico, dimensione del mondo.

Questa percezione del grande sertão viene ulteriormente enfatizzata dal linguaggio di Rosa che elude le regole risolute della sintassi, creandosene delle proprie, e non digiuna su allusioni, gerghi e detti più o meno autentici, gettando il lettore in una condizione di spaesamento linguistico quasi al limite dell’incomprensione.

Gli stessi traduttori Virginia Caporali e Roberto Francavilla nella nota a fine libro sostengono che effettivamente esiste una difficoltà lessicale, poiché Rosa «non indugia nei neologismi, o non quanto ci si aspetterebbe, solo perché ripesca termini desueti o regionali, e intanto scollega le parole dai loro significati abituali, quelli che permettono di riposare».

Ma persino l’autore, nella bellissima apertura del racconto “Se io sarei personaggio”, sembra che cerchi una “giustificazione” in buona fede al suo stile snodato e ribelle, come se quelle parole fossero rivolte con la massima franchezza proprio al lettore: «Si noti e si mediti. A me stesso sono anonimo; la parte più profonda dei miei pensieri non capisce le mie parole; conosciamo noi stessi sono con grande confusione».

Eppure nonostante il caos di una narrazione frastornante, Rosa riesce a rassicurarci disseminando nel testo piccole gemme di rara bellezza poetica, ed è quasi inebriante incappare in questi brevi aforismi liberi ma non troppo dal contesto in cui compaiono, esistenze a sé che rendono profondo qualsiasi pensiero, anche del più scialbo e sventurato dei protagonisti.

«Il fiore è solo fiore. L’allegria di Dio ha un vestito di amarezze».

 

(João Guimarães Rosa, Tutameia, Trad. di Virginia Caporali e Roberto Francavilla, Del Vecchio Editore, 2015, pp. 288, euro 16)

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LA CRITICA

Sosteneva lo scrittore Oscar Wilde che esistono solo due tipologie di libri al mondo, quelli scritti bene e quelli scritti male, eppure questa classificazione-provocazione non sembra nemmeno avvicinarsi lontanamente alla forma narrativa di João Guimarães Rosa; lui è semplicemente… altro.

VOTO

7/10

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effe

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