“Quando tutto tornerà a essere come non è mai stato” di Joachim Meyerhoff

Perché i pazzi sono intorno, i pazzi sono dentro.

di / 15 ottobre 2015

Sono sempre stata attratta dall’irrealizzato. Non che la cosa mi affranchi dalla massa, anzi. Sono arruolata in stato permanente nella sovraffollata schiera di quelli che avrebbero potuto. Militare di carriera nel battaglione dei delusi. Richiedente asilo nei tempi ipotetici. Col midollo convinto che basterebbe così poco. Ma quel poco è sempre di spalle. Quindi è altamente intuibile che un titolo del genere mi ghermisse senza neanche arrotare gli artigli. Quando tutto tornerà a essere come non è mai stato (Marsilio, 2015). Traduzione praticamente letterale dell’idea tedesca di Joachim Meyerhoff, attore teatrale rovesciato nelle quinte di un romanzo. Dove sceneggiatura e protagonista si corrompono come colori primari.

La storia è la sua, quella di terzo figlio di una famiglia perfetta per l’impasto letterario. Il padre è direttore di un ospedale psichiatrico per infanzia e adolescenza e casa sua è un fortino contornato da grida invereconde. Slanci incoercibili, entusiasmi e lamenti per ragioni di altri mondi. Joachim e i suoi fratelli si addormentano tra nenie di delirio e questo lo conforta perché quei versi gli arredano le notti e il silenzio ronzerebbe troppo forte. Tutto lo strambo equilibrio domestico (e quindi narrativo) s’impernia sull’ingombrante figura paterna. Demiurgo, medico, uomo enciclopedico, mangiatore, lettore e fumatore incallito, depositario di risposte e carisma. Amante devoto di ogni sorta di teoria, sprofondato nelle pagine fino a prosciugarne il peso. Lasciando la pratica quasi sempre a sua moglie.

Il padre studia e la madre agisce. Sola, lontana dal tepore dell’Italia e di altra compagnia. Non ci sono amici a gravitare tra le mura, le sole visite sono quelle dei «dementini», che condiscono le feste con i loro spropositi. C’è chi implora di accarezzare il cane da cui è terrorizzato, chi inghiotte parole e le risputa senza spilli né intervalli, chi mulina all’aria braccia scampananti. C’è tutta un’orchestra di follia sinfonica che accompagna la sua crescita e che non si distacca poi molto da quella prodotta direttamente in casa.

Un fratello maggiore che vive ammuffito in una stanza-acquario, un altro che crede già di possedere ogni scienza e lui, piccolo e schernito che reagisce agli insulti con tempeste di rabbia da cui resta sfinito.

I pazzi sono intorno, i pazzi sono dentro. Il confine spesso è ideale e serve a eleggere zone di comfort, perimetri imbottiti davanti a cui pretendere che si bussi con cautela.

Non subentrano colpi di scena. Il romanzo è una ficcante sequela di aneddoti, lo snodarsi sgangherato delle esperienze dell’autore, dall’infanzia all’età adulta, sbucando attraverso varie tappe della disillusione.

Prima fra tutte, quella scaturita dal rapporto tra i suoi genitori. Scoprire che i loro letti sono sempre più distanti, come brandelli alla deriva di un arcipelago annoiato. Scoprire che il padre fissa altri corpi al di là di quelli amati, che la madre sopporta fino a deflagrare. E poi socializzare con l’irrimandabile. L’atroce beffardo quotidiano. La morte che serpeggia, tra i pazienti e ancora più addosso, fin quando l’Istituto, il monumento feticcio della sua prima vita, non viene trasformato. Chiuso, demolito, sbriciolato a dovere come un capitolo senza memoria. Con l’impulso imbattibile di andare altrove. «In seguito mi sono chiesto spesso dove fosse andato a finire tutt’a un tratto quel dolore così tenace. Quel dolore rimpinzato di morfina che aveva succhiato tutta la vita di mio padre, che l’aveva spolpato come si spolpa un osso sugoso. Quel dolore così potente, sì, in tutto e per tutto vivo e vegeto, non poteva essere sparito. […] Era forse seduto da qualche parte, si nutriva della forza che gli aveva rosicchiato e aspettava di avere di nuovo fame per attaccare me?».

Ma non c’è solo spazio per digrignare i denti. Qui si ride e anche parecchio, perché l’ironia non ha nessun accesso che le sia interdetto. È forse questo il segreto sovversivo di ogni intima follia. La manipolazione della prospettiva, la facoltà indomita di disattendere ogni ritaglio di ragionevolezza, d’inscrivere il riso e il pianto nello stesso circo-lo emotivo, fino al punto di confonderli.

Non c’è niente di introvabile o di realmente originale nell’ambientazione del libro di Meyerhoff. Il romanzo si aggiunge al plotone marciante di ennesimi altri con richiami e contesti psichiatrici, in cui la normalità è sempre un patto scricchiolante con l’empito di offenderla. Il festival è densamente abitato da letture a cui è stato splendido abboccare, come Follia di McGrath, Un angelo alla mia tavola di Janet Frame, La ragazza interrotta di Susanna Kayes, La campana di vetro di Sylvia Plath fino agli italianissimi Cattiverìa di Rosario Palazzolo e La casa del sollievo mentale di Francesco Permunian. Qui, come in altri esempi, c’è una piccola esistenza tra altre infinite/sime; c’è la vicenda ombelicale di un uomo cresciuto in mezzo ad anime labili, che ha afferrato con gli occhi e la lingua il senso ineluttabile del vivere. Perché tornare non è mai ritrovare ciò che è stato, perché alcune stagioni sopravvivono solo nel limbo d’ovatta del nostro immaginato.

A meno che forse la pazzia non ci indichi la strada. Rimettendo tutto in sesto, rimettendo tutto in gioco. Con noi pronti a riabbracciare tutto quello che solo mai abbiamo posseduto.

 

(Joachim Meyerhoff, Quando tutto tornerà a essere come non è mai stato, trad. di Giovanna Agabio, Marsilio, 2015, pp. 324, euro 19)

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LA CRITICA

Ricostruzione brillante di una vita insolita, minima e preziosa come tutte. Infanzia e crescita del protagonista in un mondo di folli comparse e di grandiose presenze. Romanzo denso. D’umorismo e di saggezza. Ottima traduzione di Giovanna Agabio.

VOTO

8/10

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