“La cattiva luce”
di Carlos Castán

Cosa accade quando una vita va ricostruita da zero?

di / 18 novembre 2015

Ci deve essere qualcosa di enigmatico nella mente umana. Gli uomini sono troppo deboli per sopportare la vista della loro medesima realtà, specie se illuminata da una livida e fredda luce esistenziale, una luce giallastra che logora i nervi.

Come capita davanti ai titoli di coda di un film che coinvolge, per cui si resta lì, mentre la sala si svuota, un po’ storditi, così ci si sente a lettura conclusa de La cattiva luce (Egg Edizioni, 2015) dello scrittore spagnolo Carlos Castán, un autore sorprendente per la sua arte di raccontare le fragilità umane.

Molto spesso un evento traumatico, quale può essere una separazione, un incidente, un lutto o il dramma di orrore e violenza dei campi di concentramento, può aprire «una ferita gigante e viva all’interno della testa». È allora che i fantasmi del passato tornano a visitarci senza essere stati invitati, generando paure irrazionali.

Le fauci si seccano, si mozza il respiro, movimenti scomposti e tremori paralizzano le gambe. Tutto intorno gira e in quei momenti ci si sente morire e si avverte tutta la solitudine della condizione umana di fronte agli sguardi attoniti e indifferenti degli altri. Ci si sente come pesci boccheggianti sulla riva: «Ricordo la paura di esistere, fatto carne, groviglio di nervi; e il modo in cui mi percepivo, più o meno come si sente un tremore, i movimenti bruschi di un cuore sfinito che sembra costantemente cambiare posizione al centro del petto senza riuscire a trovare il suo posto».

La colta prosa di Carlos Castán, dai ritmi basculanti, restituisce i pensieri ondivaghi dell’io narrante, profondamente provato, prima dalla separazione dalla moglie, poi dalla perdita del suo migliore amico Jacopo, ferocemente assassinato.

La cattiva luce non è però un noir. Si avvicina forse di più a un thriller psicologico che si gioca tutto all’interno del cervello del protagonista.

Avvertiamo tutta la precarietà della condizione umana laddove perfino la ragione può tradire. Non essere più padroni delle proprie facoltà fa sentire «come una barca senza timone in un oceano di angoscia». Ci si trova a gridare nel cuore della notte tutto l’orrore di poter morire soli, come negli ultimi tempi prima di morire succedeva a Jacopo: «Situazioni come queste sono quelle che più chiaramente sono riuscito a scorgere la radicale solitudine di un essere umano, di qualunque essere umano, e l’impossibilità di una comunicazione profonda. […] Due persone possono anche stringersi l’una contro l’altra, serrarsi le mani con forza, e tuttavia non riuscire a penetrare l’uno nell’inferno dell’altro, nemmeno a capirlo lontanamente. Oltre a una rudimentale empatia che praticamente si esaurisce nella consapevolezza che l’altro soffre, così, quasi in modo astratto, non c’è nulla che si possa fare per riuscire a penetrare nel pensiero altrui, nella paura altrui, e lottare a denti stretti, come spesso si vorrebbe, contro i fantasmi e le tormente che lì si addensano».

Carlos Castán è bravissimo nel tratteggiare una figura umanissima: la sua fatica di vivere, il suo sentirsi come un ritardato mentale «inabile […] agli impacci della vita», la sua difficoltà a metabolizzare un lutto che è senso di colpa in quanto assenza per lui (egoismo o espressione di uno stato d’animo individuale che si rispecchia e si sublima in quello della persona amata perduta?), il dolore di sostenere gli occhi della madre, affetta da demenza senile, divenuti «le finestre di una casa disabitata», il suo io bambino a cui chiedere perdono per aver tradito tutti i suoi sogni («Bimbo, perdonami per tutto il dolore che ti ho inflitto, per quello che ho finito per fare alla tua vita»), il suo istinto suicida che gli fa tornare in mente quando nel lontano Capodanno del 2010 si era soffermato sul ponte Mirabeau a ripensare al suicidio di Paul Celan.

La cattiva luce è un libro che sgraffia e scuote come solo la buona letteratura sa fare. Ci fa comprendere quanto opachi e ingannevoli siamo noi stessi e le persone che ci circondano. Così resto scombinata e destabilizzata in questa «infinita domenica pomeriggio, una nebbia di noia e sconfitta» che è la mia esistenza.

(Carlos Castán, La cattiva luce, trad. di Federico Di Vita, Egg Edizioni, 2015, pp. 184, euro 14)

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LA CRITICA

Non c’è speranza né redenzione in La cattiva luce. È una lettura complicata e faticosa che però riesce scuotere dalla nostra piatta apatia. È un pretesto per guardarsi indietro, sul filo della memoria, ripensando a come si era.

VOTO

8,5/10

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