“Il braccialetto”
di Lia Levi

Estate ’43: dalla caduta del fascismo alla razzia degli ebrei romani, una storia di amicizia e identità

di / 29 gennaio 2015

«Quando scrivo per bambini – mi dice sorridendo – racconto le storie che ancora mi piacerebbe ascoltare». Lia Levi ha più di ottant’anni e un sorriso generoso. Ha scritto tanto per bambini, ma non solo per loro. Nei suoi racconti ha toccato i temi scottanti della storia del nostro Novecento. Il braccialetto (e/o, 2014) è il suo ultimo romanzo.

«Noi ci incontriamo con i grandi problemi della Storia, con le tragedie, però quello che viviamo nel quotidiano sono i nostri piccoli problemi di esseri umani», ha detto in un’intervista televisiva. Ed è proprio questo che la Levi cerca di fare nei suoi libri: mostrare l’interferire dei grandi problemi della Storia con le nostre piccole questioni quotidiane; raccontare l’irrompere della Storia nella storia di ciascuno di noi. Così l’autrice racconta il passato con il filtro dell’immaginazione e dell’emozione, aggiogando il lettore che si immedesima nei personaggi e nelle loro vite minute.

Divenuta famosa con Una bambina e basta (1994), romanzo autobiografico in cui racconta le vicissitudini di una bambina ebrea (lei) durante le persecuzioni razziali, Lia Levi è una voce autorevole della comunità ebraica romana (ha fondato e diretto per anni il mensile Shalom).

Il braccialetto è ambientato in un periodo assai delicato: l’estate del 1943, tra la caduta del Fascismo e la razzia degli ebrei romani del 16 ottobre. C’è un’atmosfera rarefatta, un senso di attesa che attraversano tutto il libro fino al declino finale. A nutrire l’attesa è la speranza che, essendo caduto Mussolini, le leggi razziali saranno abolite se non oggi, domani, e i protagonisti potranno tornare alla loro vita. Invece non sarà così. Alla fine del libro una interessante nota di Anna Foa, docente alla Sapienza, mostra come il Vaticano stesso non avesse alcuna intenzione di abolire tutte le leggi razziali: la maggior parte di esse era ritenuta legittima.

In questo limbo, in cui i personaggi ebrei vagano sospesi tra la legittimità di essere e no, si sviluppa la storia della tenera amicizia tra due quindicenni, Corrado Mieli, che vive in prima persona il disagio, essendo ebreo, e Leandro, un adolescente alla ricerca della sua identità.

Corrado si aspetta che il nuovo governo abolisca le leggi razziali. È sicuro che il prossimo anno scolastico potrà frequentare il famoso liceo Visconti; ma vede i suoi genitori sempre più preoccupati e spenti. La madre ha venduto il suo braccialetto d’oro, simbolo, con il suo scampanellio, della vita lieve del passato (ma solo alla fine scopriremo la verità sul braccialetto). Leandro abita in una grande casa antica, con una ricca prozia russa, che chiama «nonna», e si sente solo, annoiato, ma soprattutto senza punti di riferimento. Fin dal primo momento in cui vede Corrado al cinema, cerca di fare amicizia con lui (sembra quasi un corteggiamento che il ragazzo mette in atto nei suoi confronti) e quando Corrado gli dichiara di essere ebreo (una scena che sembra quella di un coming out), Leandro si lega a lui con ancora più fervore, perché, in fondo, vorrebbe essere come lui, con una comunità di riferimento, dei miti e dei riti condivisi: «Ho sbagliato le parole – aveva ribattuto ostinato e senza pentimento – tu mi devi aiutare a cercare quelle che voglio dire. Ho bisogno di parlare con un ebreo». Leandro non ha niente: gli ampi spazi della sua casa, bui, rimbombanti, sembrano il correlativo oggettivo della sua interiorità. Leandro è la sua casa vuota come un castello.

Di fronte a tale materia incandescente, quello che colpisce è la levità della lingua scelta dall’autrice. La lingua, di fronte alle piccole e grandi tragedie, è imperturbabile – un arcobaleno che si inarca sulla storia. Questa caratteristica dello stile è forse un modo per cospargere di miele la coppa che contiene una medicina amara; oppure per far sì che la lingua si metta da parte umilmente, per cedere spazio alla storia, per lasciare slargarsi, davanti agli occhi del lettore, il paesaggio degli eventi. Oppure la scelta di una lingua lieve può essere inserita in una prospettiva di purificazione, di salvezza o, meglio, di salvazione. Per Corrado e Leandro, per noi che leggiamo, e, forse, anche per l’autrice. Perché a volte la scrittura salva. E purifica più del dolore.

(Lia Levi, Il braccialetto, e/o, 2014, pp. 139, euro 15)

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