“Quando eravamo prede”
di Carlo D’Amicis

Una narrazione allegorica dell'eterno conflitto tra l'uomo e la sua natura

di / 26 gennaio 2015

C’è il Cerchio, e c’è la Linea. Nel Cerchio, i Cacciatori: Toro, Alce, Cagna, Agnello e altri ancora. Della Linea invece nel Cerchio si sa ben poco, un fiume però continua a scorrere e porta della Linea nel Cerchio testimonianza: strani oggetti, forse rifiuti, comunque pezzi del mondo di là, di quella Linea che c’è ed è confine. Intorno, un bosco e la sua nebbia, l’aleggiante presenza di un’apocalisse accaduta o a venire: si respira sospensione, un’attesa che sa di metafisica.

Carlo D’Amicis lascia Quando eravamo prede (minimum fax, 2014) fuori dal tempo, e dalle risposte che ogni tempo dispone attraverso la propria più o meno legittimante narrazione. E allora i riferimenti non possono che mancare se l’uomo e l’animale si confondono, se per osmosi l’uno e l’altro si ergono a scherno della ragione che tutto vuole possedere, regina insoddisfatta, sempre protesa a ribadire la propria sovranità. Ma non è questo il regno di cui D’Amicis racconta.

C’è un io narrante, è Agnello, che deve iniziarsi: uccidere. Perché «in principio erano gli animali, e i cacciatori vivevano della loro morte», per poi prenderne i nomi e indossarne le pellicce. Morte ed estinzione, Toro resta l’ultimo maschio fertile del Cerchio. C’è una legge, in definitiva, che ha nella Natura l’ineludibile sfondo. E se a fuggire sarà proprio la stessa Natura, lasciandosi dietro banchi e banchi di silenzio, si sentirà allora forte la pressione del sangue alimentare il cuore del paradosso.

Perché dalla Linea penetra nel Cerchio la Scimmia, una donna, con una Bibbia e con tutta la propria femminilità, e non si avrà più modo, nel Cerchio, di aggrapparsi al vecchio ordine. I Cacciatori diventeranno prede di una fame sconosciuta – non più un animale nel Cerchio dall’arrivo di Scimmia – e di un germe via via diffondentesi: la civiltà e i suoi sprazzi.

Quando eravamo prede sa essere crudo, violento, cinico e straordinariamente lirico, come del resto l’opera tutta della Natura, di quella Natura che contiene l’uomo, l’animale e ciò che gravita tra l’uno e l’altro, in una zona di indistinzione che, oltre a magnetizzare – chi non vorrebbe risvegliare la propria bestia? – non fa che rivendicare quel dominio mai sottrattole fino in fondo: ci son sempre topi da fronteggiare, a prescindere dal livello d’efficienza d’una società complessa.

Si scivola sul terreno che batte Carlo D’Amicis: la sapienza naturale sembra non esserci mai appartenuta, quasi fosse il delirio di un mendicante, ma gli slanci ferini ancora ci prendono l’anima, e ci riportano là dove siamo sempre stati, in quella nuda terra in cui a vincere è il più forte, scardinando quindi, con ogni istintiva nostalgica reazione, i blocchi della tanto sofferta evoluzione culturale.

Che cos’è dunque civiltà? Valgano su tutte le parole di Agnello, il sacrificio per eccellenza: «Eravamo l’arma e il bersaglio».

(Carlo D’Amicis, Quando eravamo prede, minimum fax, 2014, pp. 187, euro 14)

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