“The Pills – Sempre meglio che lavorare”
di Luca Vecchi

L’esordio cinematografico dei The Pills

di / 22 gennaio 2016

The Pills Sempre Meglio che lavorare Flanerí

Alla fine è arrivato il momento dei The Pills. Dopo essersi fatti notare sempre di più su internet nell’arco di cinque anni con i loro video, a metà strada tra sit-com e cortometraggi, dopo essere passati per la televisione come conduttori (adesso su Italia 1 con Non ce la faremo mai, prima su Deejay Tv con il Late Night with The Pills) e autori (Zio Gianni per Rai Due),  Luigi Di Capua, Luca Vecchi e Matteo Corradini arrivano al cinema con il loro primo film, The Pills – Sempre meglio che lavorare, di cui sono protagonisti e sceneggiatori (insieme a Luca Ravenna). A dirigere, ci pensa il solo Luca Vecchi.

Dietro, a muovere i fili, c’è Pietro Valsecchi, eminenza grigia di Medusa e Mediaset, responsabile come produttore dei successi di Checco Zalone (ma anche del Chiamatemi Francesco di Daniele Luchetti) e grande esperto nel trasformare (o provare a trasformare) personaggi televisivi in attori. Con i Pills il discorso è un po’ diverso: non sono personaggi televisivi, nascono anarchici, liberi di dire quello che pensano nel modo che preferiscono. The Pills – Sempre meglio che lavorare ha il grande pregio di mantenere intatto lo spirito dei video di internet del trio. Del resto, i Pills si sono quasi limitati a trasferire sul grande schermo le loro idee. Così, ci sono Luca, Luigi e Matteo, tre trentenni alle prese con il passaggio definitivo all’età adulta. Amici da sempre, da quando da bambini si sono scambiati la promessa di non lavorare mai, i tre continuano a galleggiare beati in un’eterna post-adolescenza al riparo nella loro cucina, a bere caffè e a parlare. Qualcosa cambia, però, per ognuno di loro. Perché Luca sente il bisogno di iniziare a lavorare e sogna la “svolta” aprendo un alimentari come quello dei bengalesi sotto casa, Luigi precipita in una crisi di mezza età precoce quando un ragazzo più giovane gli dà del lei per chiedergli una sigaretta e Matteo è alle prese con un padre che, arrivato all’età della pensione, decide di inseguire i sogni artistici della sua gioventù e di trasferirsi a Berlino per fare il regista.

Il passaggio dal canale Youtube al cinema era molto, molto rischioso. Un conto è fare delle clip di un quarto d’ora al massimo, un altro è strutturare un film compiuto. I Pills sono riusciti a metà a fare il salto. Già dai loro video per internet era chiara una consapevolezza espressiva che metteva insieme tanti riferimenti cinematografici (Jim Jarmush, Woody Allen) per costruire una struttura personale e riconoscibile. Sul piano stilistico, come si è detto, i Pills sono riusciti a rimanere loro stessi, e il merito qui va anche a Valsecchi che li ha lasciati lavorare in libertà. L’identità di Luca, Luigi e Matteo è rimasta intatta, non si sono snaturati, né calmati, non hanno moderato il linguaggio, o i riferimenti ai mondi marginali della droga e cose così.

Questa coerenza espressiva ha permesso a Sempre meglio che lavorare di porsi lungo una linea di continuità con i lavori per il web. Gli appassionati della prima ora, in sostanza, riconosceranno il mondo che hanno iniziato ad apprezzare su Youtube, mentre i nuovi arrivati potranno comunque lasciarsi prendere da un linguaggio che unisce gergo e cinefilia, mischiando citazioni continue, in perfetto stile Tarantino, dagli spaghetti western, dal cinema di Hong Kong, Blow, L’attimo fuggenteFight ClubBatman Begins, ma anche da Chiedimi se sono felice di Aldo, Giovanni e Giacomo, e praticamente da tutto il cinema di Muccino (Gabriele) fino al calco totale (ed esilarante) di Come te nessuno mai con Luigi Di Capua che finisce per diventare Silvio (Muccino).

Esordendo nel lungometraggio, i Pills trovano la difficoltà maggiore nel mantenere la piena omogeneità tra le varie parti del film, ad amalgamare gli sketch in una resa unica e coerente che dia maggiore sostanza al soggetto essenziale su cui si regge tutto. Le trovate non mancano, già dal prologo nel 1994 con loro bambini (con barbe e baffi) che dialogano di Cristina D’Avena, Lady Oscar o Dodò dell’Albero Azzurro con la stessa serietà di quando saranno grandi, a volte manca un filo unico che le tenga insieme.

Sempre meglio che lavorare, come tutto il mondo di The Pills, trova però il suo limite maggiore nella romanità evidente alla base di tutto. Non solo nel linguaggio, ma anche in tutto quel mondo di riferimenti a realtà specifiche della Capitale che non possono essere capite pienamente al di fuori del raccordo o da fasce d’età diverse da quelle dei suoi protagonisti. C’è tutta una realtà che è propria di Luca Vecchi, Luigi Di Capua e Matteo Corradini, prima ancora che di The Pills, quella di certi locali, di certe persone, di certa musica (nella colonna sonora ci sono I Cani, The Giornalisti e Calcutta) che è stata trasferita al cinema e che è molto lontana da gran parte del pubblico.

Questa localizzazione precisa, comunque, non impedisce letture più ampie che già hanno accompagnato in passato il progetto The Pills, dalle pretese sociologiche di leggere lo sbando di una generazione senza aspettative allo sforzo di fantasia di parlare di Ecce bombo quarant’anni dopo. Forse guidato dalle esigenze di produzione, Sempre meglio che lavorare finisce per cedere alle pressioni della lettura più alta a tutti i costi, con il discorso finale della cicorietta ripassata che sembra una specie di Proust passato attraverso il box doccia di Santa Maradona di Marco Ponti. Ecco, probabilmente e nonostante tutto, Sempre meglio che lavorare può aspirare a diventare il Santa Maradona di oggi. Come l’esordio di Marco Ponti non è perfetto, ma è carico di una voglia di novità che gli dà una forza unica e irresistibile.

(The Pills – Sempre meglio che lavorare, di Luca Vecchi, 2016, commedia, 83’)

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LA CRITICA

Alla prova del grande schermo, il trio The Pills fa vedere di essere in possesso di un’ottima idea di cinema e di una consapevolezza di linguaggio che funziona anche nel lungometraggio.

VOTO

7/10

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