“The Hateful Eight”
di Quentin Tarantino

L’ottavo film di un regista di culto

di / 2 febbraio 2016

The Hateful Eight Poster

L’ottavo film di Quentin Tarantino (otto e un quarto se si conta anche il frammento del film collettivo Four Rooms; il nono calcolando come separati i due volumi di Kill Bill) arriva preannunciato da tutta una serie di articoli e discussioni che hanno più a che fare con il contorno che con il film vero e proprio. La difesa della pellicola da parte di Tarantino, l’uso di un formato “antico” come il 70mm, la polemica con la polizia statunitense per gli omicidi razziali, il boicottaggio del film, #OscarSoWhite, la colonna sonora di Morricone – la prima colonna sonora originale integrale per un film di Tarantino – e tutto il resto hanno accompagnato l’arrivo nelle sale di The Hateful Eight finendo quasi per distogliere l’attenzione dal film stesso.

Eppure, su questo secondo più o meno western del regista di Pulp Fiction c’è tanto da dire, nel bene e nel male. In Wyoming, qualche anno dopo la fine della Guerra di Secessione, il cacciatore di taglie John Ruth è in viaggio verso Red Rock per consegnare alla giustizia la fuorilegge Daisy Domergue. Lungo la strada raccoglie sulla sua diligenza il maggiore afroamericano Marquis Warren e Chris Mannix, il nuovo sceriffo di Red Rock, un ex ribelle sudista animato da un sincero razzismo. Una tempesta di neve li obbliga a fermarsi nell’emporio di Minnie, un luogo sicuro lungo la strada. Nella capanna non trovano Minnie, ma quattro uomini rimasti bloccati dalla tormenta: un ex generale sudista, il boia di Red Rock, un cow boy silenzioso e il messicano Bob, apparentemente il custode dell’emporio. Ruth è convinto: qualcuno è lì per aiutare Daisy a fuggire e finché non passa la tempesta dovrà rimanere chiuso  lì con gli occhi aperti.

La versione in 70mm da 188 minuti (ne esiste una in digitale, quella che verrà proiettata nella stragrande maggioranza dei cinema, con circa venti minuti di meno), ha un’introduzione musicale su schermo nero e un intervallo di dodici minuti nel pieno rispetto della tradizione delle proiezioni speciali di altre epoche cinematografiche. È uno dei tanti momenti della battaglia che Quentin Tarantino porta avanti da anni in difesa della pellicola e di un’idea di cinema diversa dal consumo veloce e digitale, in nome della dimensione artigianale del cinema, quella fatta di oggetti, dalla pellicola alla macchina da presa, dal proiettore allo schermo cinematografico.

Dopo anni di velocità, Tarantino sceglie la strada della lentezza nell’esposizione e nello sviluppo, nel movimento della macchina da presa, nell’accumulo. Aperto da un lento carrello all’indietro su un crocifisso innevato, con sullo sfondo, lontana, la diligenza di John Ruth che avanza nella neve, The Hateful Eight dopo la visione dà l’impressione immediata e paradossale che sarebbe potuto durare anche altre tre ore, o un’ora e mezzo di meno. Tarantino si prende tutto il tempo che vuole per presentare i suoi otto, per lasciare che si costruisca il sospetto. Si perde in divagazioni, si sofferma sui dettagli per poi esplodere nella violenza.

C’è una divisione netta tra prima e seconda parte in questo western classico e allo stesso tempo completamente diverso dalla tradizione. La prima è lenta, piena di dialoghi, praticamente senza azione. Sembra quasi un giallo della camera chiusa alla Dieci piccoli indiani e in genere alla Agatha Christie, come è già stato detto praticamente in tutte le recensioni e come ha confermato lo stesso regista, con la tensione del sospetto che si accumula strato su strato. Dopo l’intervallo la suspense si scioglie nell’ultima ora (abbondante) in un’esplosione di violenza che non risparmia nessuno.

Dopo l’hard boiled dei primi tre film, il cinema di genere dei Kill Bill e Death Proof, la filmografia più recente di Tarantino a partire da Bastardi senza gloria ha iniziato a guardare indietro nel tempo. La storia è diventata un oggetto da decostruire per privarla degli elementi del reale superflui per la narrazione tarantiniana, per poi essere rimontata secondo la necessità. Così, Hitler e Goering possono morire in un cinema di Parigi, uno schiavo può ribellarsi agli sfruttatori per liberare la donna amata, una capanna può diventare la sintesi di un intero Paese. Andando ancora una volta, dopo Django Unchained, in uno dei momenti iniziali degli Stati Uniti come civiltà più che come nazione, Tarantino riesce a guardare anche al presente, al razzismo che continua a essere un tratto distintivo di gran parte della popolazione statunitense. C’è dell’ironia nel fatto che Spike Lee continui a polemizzare per l’uso libero che Tarantino fa nei suo film della “N-word” (Nigger), mentre proprio i due film più recenti di Tarantino siano denunce piuttosto evidenti della natura violenta e razzista degli Stati Uniti. L’odio per l’altro fa parte del codice della nazione. L’unica giustizia possibile, ancora, sembra essere quella della frontiera, del’uomo contro uomo, delle pistole puntate.

Questo non toglie che The Hateful Eight soffra di tutti i limiti classici del tarantinismo, quelli che tratteggiano il confine labile tra la venerazione e il disprezzo. Troppe parole, troppa violenza, manierismo. E anche in questo ottavo film si finisce per avere una prima parte in cui si parla troppo, esagerando nelle divagazioni, nelle storie nella storia, per il puro gusto dello sfoggio della scrittura. Poi arriva il sangue, esagerato, torrenziale, con l’ennesima orgia di sangue inutilmente pulp, la catarsi finale ogni volta più lunga, ogni volta più prevedibile. E poi c’è quel sospetto, quella sensazione che la forma debba prevalere sulla sostanza, che The Hateful Eight valga di più per il prolungato discorso sul formato 70mm, per la difesa della pellicola, per Tarantino come personaggio e, soprattutto in Italia, per Morricone e la rivalutazione dello spaghetti western che per il suo reale valore di film.

Ci sono dei momenti di grande cinema senza dubbio, perché, tralasciando i discorsi particolari e universali, Quentin Tarantino è un grande regista che sa fare cinema come nessun altro copiando chiunque, e qui basterebbe la scena in cui Daisy canta e suona la chitarra per soddisfare lo spettatore più esigente. Quell’impressione, però, che The Hateful Eight sarebbe potuto ugualmente durare altre tre ore o un’ora e mezzo di meno fa capire che qualcosa non è riuscito del tutto, che la costruzione della tensione è un inutile esercizio di stile per una conclusione che per il regista sarà un marchio di fabbrica ma che non aggiunge niente di nuovo per lo spettatore.

(The Hateful Eight, di Quentin Tarantino, 2015, western, 188’)

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LA CRITICA

Arrivato all’ottavo film, Quentin Tarantino conferma la vocazione storica del suo cinema più recente. Il passato per guardare al presente, la violenza e il razzismo come tratti propri degli Stati Uniti. Chi lo ama, troverà in The Hateful Eight quello che cerca, compresi i suoi limiti, sempre gli stessi, sempre più evidenti.

VOTO

6/10

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effe

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