“The Getaway”
dei Red Hot Chili Peppers

Quattro dinosauri in punta di piedi

di / 11 luglio 2016

The Getaway copertina album Red Hot Chilli Peppers su Flanerí

Cos’hanno in comune Detroit e i Red Hot Chili Peppers? Più o meno quello che la Motor City ha in comune con chiunque altro abbia avuto successo nella vita: il dover fare i conti con l’inevitabile parabola discendente. Lo conferma The Getaway, l’ultimo album in studio della band di Anthony Kiedis. Sono gli stessi musicisti di Los Angeles a scoprire il fianco per l’accostamento, e nella traccia Detroit – appunto – il pugno sbatte sul tavolo e si alza la protesta: «Can you see the rising of the old yesterday’s remains?/ Riesci a vedere la rinascita dei vecchi resti di ieri?». Ma proprio come il cielo pallido tiranneggia ormai inamovibile sull’ex capitale dell’auto americana, il grigio pian piano si è impossessato della musica dei RHCP (e dei loro capelli). La vera domanda è: c’è davvero qualcosa che potrà rinascere?

The Getaway assume la forma della continua lotta tra energia e declino, carica e malinconia, ritmo e melodie, giovinezza ed età adulta: una negazione di resa costantemente tradita dal sincero filo rosso della confessione, che spontaneamente si manifesta in versi sparsi tra le varie tracce e nell’anima grigio–azzurra degli strumenti. L’impressione è che a frenare la deriva acustica attorno al fuoco di ferragosto ci sia niente di più che la paura di indici puntati e di grida al tradimento. Tutto il lavoro sembra dire: siamo noi, è certo che siamo noi, ma non siamo più quei noi; a chi interessa ascoltare come siamo diventati?

“Dark Necessities” esce come singolo, e non a caso. Bisognava lanciare un amo, un’esca da mandare avanti. Il riff iniziale è un rassicurante specchietto per le allodole, la voce è proprio quella di Kiedis, rifinita qui e lì, che culla la canzone intera. A fare da sfondo c’è il timbro irrinunciabile del basso di Flea. Della trappola, però, se ne accorgono un po’ tutti. Il pezzo non sbalordisce, del tipo che comunque speri passino in radio quando sei in macchina. L’idea dietro è quella di Californication, ma è sbiadita da diciassette anni di ruggine.

In The Getaway John Frusciante è di nuovo fuori, ma se c’è Flea il danno è a metà: lo scheletro dell’album vibra dell’energia inconfondibile di Balzary, che salva e coordina l’intero disco (e, per l’ennesima volta, tutto il lavoro) della band. Anche Rick Rubin è uscito dal gruppo, e al suo posto in cabina produzione sale Danger Mouse (Brian Joseph Burton), affiancato da Nigel Godrich al missaggio, forte della sua lunga esperienza con i Radiohead. Rimane stabile, invece, il sodalizio con la Warner che dura ormai dal 1991 – anno d’oro della band.

“We Turn Red”, terza canzone dell’album, è una traccia confusa, ma è l’essenza degli attuali RHCP: è un crossover rivisitato, un mix di melodie e distorsione, è spiaggia californiana e atmosfere urbane nello stesso campo visivo. Il funk metal cede a tratti all’alternative e al soft rock, e quando la canzone finisce rimane un punto interrogativo – lo stesso che chiude l’intero album – lasciandoci con l’ennesima domanda: era necessario? Forse no, per alcuni di noi, ma decisamente sì per loro, che abbracciano definitivamente (a cinque anni da I’m With You) il naturale corso della vita, pur se ancora con qualche resistenza (esplicita nel tentativo di ritorno al ritmo in “This Ticonderoga” e “Go Robot”). Con “The Longest Wave” il sipario cala sulla messinscena, ed è per questo che il pezzo risulta tra i più riusciti del disco:  «Poppies grow tall / Then say bye bye /The wave is here». La chitarra (non importa che sia di Josh Klinghoffer), ormai soffusa, sta lì a chiedersi se ci sia ancora posto per lei.

The Getaway è l’inevitabile malinconia di quattro adulti sulle porte dell’estate, l’inevitabile tristezza degli amanti di Blood Sugar Sex Magik davanti a una California tanto poco erotica quanto enormemente sentimentale. Insomma, la grande massima welshiana che ha tolto il velo di Maya sulla testa di tutti i nostri miti adolescenziali, ritorna come la solita epifania in tutta la sua semplicità – e ovvietà: «beh, a un certo punto ce l’hai, poi lo perdi».

 

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LA CRITICA

Non potevamo aspettarci nulla di diverso dai veterani di Los Angeles alle prese con la mezza età. Nonostante i tempi delle fornicazioni siano finiti, l’album è nel complesso musicalmente piacevole e ben struttturato. E poi, chi siamo noi per giudicare le malinconie altrui?

VOTO

6,5/10

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effe

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