“Discorso sul romanzo moderno”
di Alfonso Berardinelli

Come nasce il romanzo (e l’idea di realtà) occidentale

di / 10 agosto 2016

In un momento culturale in cui il romanzo, genere caratteristico della modernità letteraria, si veste sempre più di forme che si allontanano dal canone tradizionale per costruire oggetti narrativi sempre nuovi e di difficile catalogazione, appare necessario e doveroso riflettere su di esso, studiarlo, interrogarlo, per capire come pian piano abbia mutato la propria connotazione. Ne sente la necessità anche il critico Alfonso Berardinelli, che nel Discorso sul romanzo moderno (Carocci, 2016) ha cercato di ricostruire il percorso seguito da questo genere letterario, il quale grazie al genio di diverse personalità si è arricchito di elementi diversi e originali, che costituiscono i singoli tasselli di una storia piuttosto lunga. Il sottotitolo da questo punto di vista è eloquente: Da Cervantes al Novecento. Ma già anticipiamo che di Novecento, Svevo a parte, c’è ben poco. È tuttavia con gli occhi, la maturità e la prospettiva novecentesche che l’analisi viene condotta.

La trattazione ripercorre la storia del romanzo, cui non si può affiancare alcun aggettivo che ne identifichi una provenienza geografica: non si tratta di fatti del romanzo francese, tedesco, americano, inglese stricto sensu, né tantomeno di un romanzo europeo. Sarebbe forse più giusto parlare di romanzo occidentale, essendo l’Occidente il serbatoio che ha permesso la maturazione di idee diffusesi su larga scala, Italia compresa. Ed è singolare che escludendo le 19 pagine dedicate alla Coscienza di Zeno e qualche accenno a Manzoni, del romanzo italiano si parli pochissimo.

Ora, Berardinelli – che fa sapiente riferimento ai maggiori studiosi del romanzo, da Bachtin a Lukács, da Watt a Šklovskij, da Praz a Debenedetti – ritiene che il romanzo nasca ed esista solo in rapporto alla realtà. È vero che «il romanzo è finzione, ma è quel tipo di finzione che se non siamo interessati alla realtà non riesce a funzionare. […] Non solo il romanzo deve fingere la realtà per essere se stesso e per essere avvincente: ciò che fin dalle sue origini e negli episodi salienti della sua storia abita il cuore della narrazione romanzesca sono esattamente le peripezie del rapporto fra ciò che gli esseri umani inventano o credono e ciò che in realtà accade nella loro vita. Nel romanzo, infine, niente è più romanzesco, imprevedibile e vincente di quella cosa indomabile che è la realtà (quasi un altro nome di Dio)». E proprio dal legame del romanzo con la realtà parte il critico, analizzando anche il rapporto che i personaggi romanzeschi hanno intrattenuto con essa.

In principio era Don Chisciotte, nella cui storia la realtà diventa una «costruzione culturale», seguito da Robinson Crusoe, catapultato al di fuori della propria realtà, e da Jean-Jacques Rousseau, che introduce nel romanzo l’ingrediente dell’“io”. Non mancano poi le eccezioni: «le troveremo dove una cultura, un pensiero, una filosofia morale, una fede religiosa, un fine pedagogico, una visione della Natura e del Fato tendono a restaurare quel quadro ordinatore dell’esperienza umana e che il romanzo aveva infranto». Qui viene inserito il nostro Manzoni, i cui Promessi Sposi affiancano la balena di Melville e il Werther di Goethe. Si prosegue poi con i grandi realisti francesi, Balzac e Flaubert, senza dimenticare i russi Dostoevskij e Tolstoj, con cui il romanzo raggiunge il suo apice.

Il canone che si viene così a delineare, prettamente euro-americano, non è ovviamente scelto a caso, ma studiato con attenzione: proprio da esso, infatti, è germogliata la nostra (moderna) idea di realtà.

 

(Alfonso Berardinelli, Discorso sul romanzo moderno, Carocci, 2016, pp. 124, euro 13)
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LA CRITICA

Un saggio ben articolato che sonda con estrema perizia il territorio romanzesco per ricostruire la nostra percezione della realtà.

VOTO

7/10

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