“Barriere”
di Denzel Washington

Dal teatro allo schermo, senza mediazioni

di / 21 febbraio 2017

Poster di Barriere su Flanerí

Nel 2010 Denzel Washington e Viola Davis furono grandi protagonisti della stagione teatrale statunitense interpretando i coniugi Maxson in Fences, spettacolo del drammaturgo afroamericano August Wilson premiato con il premio Pulitzer nel 1985. Sei anni più tardi, Washington torna dietro la macchina da presa per la terza volta in carriera per dirigere Barriere, adattamento dello spettacolo di Wilson meditato per lunghi anni.

Il due volte premio Oscar Denzel Washington, anche nei panni di produttore con Scott Rudin, si è riservato ovviamente il ruolo del protagonista Troy, che tanto bene conosceva, e ha voluto al suo fianco di nuovo Viola Davis per cercare di replicare sul grande schermo quella energia strepitosa che aveva portato a entrambi un Tony Award. Il risultato, per ora, sono quattro nomination agli Oscar: miglior film, miglior attore protagonista per Denzel Washington, migliore attrice non protagonista per Viola Davis (che poi cosa ci sia di non protagonista nel suo ruolo va capito) e miglior sceneggiatura non originale per August Wilson, scomparso nel 2005 ma accreditato come unico sceneggiatore del film.

Siamo a Pittsburgh, negli anni Cinquanta. Troy Maxson lavora nella nettezza urbana e aspetta solo che arrivi venerdì per rintanarsi in casa con l’adorata moglie Rose per il fine settimana. Ha due figli da due donne diverse e una vita molto difficile alle spalle. Dopo quindici anni in carcere, a trent’anni ha scoperto il baseball e un talento che lo avrebbe potuto portare a una grande carriera, se non fosse stato per i dirigenti bianchi che secondo lui gli hanno impedito di arrivare in Major League. A cinquantatré anni è pieno di risentimento per le opportunità mancate, per il fratello rimasto menomato mentalmente nella seconda guerra mondiale, per il lavoro duro. Non vuole che Cory, il suo figlio più piccolo, viva quello che ha vissuto lui con l’illusione del football che sta coltivando e che potrebbe portare una borsa di studio e il college. Forse, però, Troy non vuole ammettere che le cose stanno cambiando.

Ha un difetto enorme, Barriere, che lo indebolisce e lo rende un grande film mancato: non è un film. Denzel Washington non ha diretto un film, ha ripreso uno spettacolo teatrale. Senza il teatro, senza il pubblico. Forse per una forma di rispetto nei confronti del lavoro di August Wilson, questa versione cinematografica del suo dramma più premiato non è altro che una replica dello spettacolo senza l’energia del palcoscenico. Washington si è limitato a piazzare la telecamera, senza particolari intuizioni registiche, e a lasciare scorrere il copione attraverso gli attori. C’è un solo ambiente – il cortile di casa Maxson –, non c’è azione, non c’è neanche colonna sonora, in pratica.

Il testo di Wilson è senza dubbio di altissima qualità, così come lo sono le prove dei due protagonisti.

Come Moonlight di Barry Jenkins, anche se in epoche diverse e con intenti diverse, Barriere racconta la vita di una comunità afroamericana senza riflettere sulla dimensione sociale, o almeno senza insistere sul tema. Si concentra sulla vicende privata e su come le persone di colore vivessero in una società in cambiamento. La questione razziale è lo sfondo su cui si muove la famiglia Maxson, con il patriarca Troy convinto di essere sempre stato ostacolato dal razzismo dei bianchi, alterando la sua visione del mondo e rintanandosi dietro le barriere delle sue convinzioni.

Alla moglie Rose non interessa il mondo esterno, le interessa solo proteggere l’unità della sua famiglia. È per questo che vuole che il marito e il figlio costruiscano insieme un recinto intorno alla casa: per tenere fuori gli altri e per tenere dentro loro, uniti e forti. Barriere, nel segno della grande tradizione del teatro statunitense, mostra un momento di svolta della società e il modo in cui le persone si preparano ad assorbirla. Troy Maxson rappresenta il vecchio, ancorato alle sue convinzioni, incapace di accettare la possibilità del cambiamento, anche quando è in positivo, fermo al riparo dei pregiudizi come alibi per giustificare se stesso. E il figlio Cory, che potrebbe vivere le novità del mondo, è una deviazione da contenere, una minaccia al sistema di convinzioni a cui Troy non è in grado di rinunciare.

Tutto questo, però, non basta a fare di Barriere qualcosa di grande. L’energia iniziale delle prove sontuose dei due protagonisti – insopportabile e gretto Washington, silenziosa e determinata Davis – si esaurisce in una lunghezza eccessiva e nella ripetizione ossessiva di situazioni che si possono sovrapporre l’una all’altra. Manca il cinema, è questo il suo difetto.

(Barriere, di Denzel Washington, 2016, drammatico, 138’)

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LA CRITICA

Denzel Washington porta sullo schermo un capolavoro del teatro statunitense senza trasformarlo in cinema. Barriere è teatro filmato senza l’energia del palcoscenico.

VOTO

6/10

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effe

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