Ditelo ad Ali Smith che il romanzo è morto

Dalla lettura del romanzo “L’una e l’altra”

di / 29 marzo 2017

Copertina di L’una e l’altra su Flanerí

Qualche settimana prima di leggere L’una e l’altra (Sur, 2016, traduzione di Federica Aceto) mi sono ritrovata casualmente in partenza per un weekend a Ferrara. Il libro lo possedevo da un po’ e l’ho infilato in valigia, consapevole che sarebbe tornato utile, prima o poi. A metà del weekend l’ho tirato fuori, noi sfogliato qualche pagina e ho fatto in tempo a capire che il giorno seguente avrei visitato lo stesso palazzo che stava al centro della narrazione. Poi l’ho rimesso in valigia, ché a Ferrara dopotutto non ci ero andata per leggere. Mi ripromisi di cominciare la lettura una volta tornata a Torino.

Dopo aver finito questo libro è come se a Ferrara ci fossi andata due volte a distanza di un niente. La prima era fine dicembre, la gente si affollava nei locali, l’umidità entrava nelle ossa e feci ritorno a casa con trentanove di febbre; la seconda era estate, si sentiva il profumo del gelsomino e la città era al tempo stesso «luminosa e tetra».

Ma andiamo con ordine.

L’una e l’altra si compone di due storie apparentemente separate, intitolate entrambe “Uno” e precedute a fronte da due diverse immagini-icona: un paio di occhi in un caso, una telecamera nell’altro. La particolarità più evidente è che da lettori non sapete quale storia troverete prima, poiché per volere dell’autrice la metà delle copie presenta prima una storia e poi la sua gemella, e la restante metà esattamente il contrario. Non è un vezzo: a seconda del libro che avrete tra le mani la visione d’insieme a lettura compiuta sarà diversa e soprattutto parziale. Così correrete a rileggere la prima parte del romanzo dopo aver già scoperto la seconda (in qualche modo sarà come finire nell’altra metà del mondo) e molti tasselli troveranno sorprendentemente una nuova collocazione.

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Una delle due storie è ambientata a Ferrara nella seconda metà del Quattrocento. Protagonista è Francesco del Cossa, pittore di corte che ha realizzato alcuni dei più begli affreschi del Salone dei Mesi di Palazzo Schifanoia. Nel romanzo si scopre che in realtà il pittore è una donna, costretta molto presto a fingersi maschio per poter trasformare il suo talento in un vero e proprio lavoro. Dall’altra parte dello spazio-tempo ci troviamo invece a Cambridge e ai giorni nostri. La storia è quella di George (Georgina), quindicenne che ha perso in circostanze poco chiare la madre, intellettuale e attivista informatica che realizzava azioni di disturbo e protesta tramite il web.

Cosa lega due storie apparentemente così lontane? L’arte, perché l’ultimo viaggio che madre e figlia hanno condiviso è proprio un soggiorno a Ferrara, sulle tracce di questo pittore di cui poco si sa (e questo è un dato reale, storico) e che tanto ha affascinato la madre di George, che per caso ne aveva scoperto l’esistenza.

Qualche riga più su ho usato la parola “visione”: è un concetto centrale in questo romanzo, il perno attorno a cui, per motivi diversi, ruota tutta la narrazione. Il termine ha a che fare con l’arte, chiaramente, e nello specifico con alcuni personaggi rappresentati negli affreschi, di cui si parla con grande dovizia di particolari in più occasioni. A proposito: l’edizione italiana non riporta le due immagini riprodotte a tutta pagina nella seconda e nella terza di copertina dell’edizione originale. Si tratta di due personaggi che compaiono nella fascia intermedia dell’affresco dedicato al mese di marzo, rispettivamente alla destra e alla sinistra dell’ariete. Sono figure di non chiara interpretazione, identificate però come decani del segno zodiacale. In L’una e l’altra si parla di loro in entrambe le storie. Vediamo come.

Parte “Uno” (XV sec.). Prima di procedere con la realizzazione degli affreschi, il pittore (che noi sappiamo pittrice) riceve alcune indicazioni precise: «Il primo decano dell’ariete andrebbe vestito di bianco. Dovrebbe essere alto, scuro, potente, un uomo autoritario che esercita un grande potere buono nel mondo. Deve essere il guardiano non solo della sala ma dell’intero anno. […] E accanto, per piacere, mettici anche una figura che rappresenti la gioventù e la fecondità e che regga in mano, per esempio, una freccia, simbolo di perizia e di buona mira. Magari un autoritratto, Francescho, la tua bella faccia delicata, che ne dici?» (p.101).

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Parte “Uno” (XXI sec.). Quando George si ritrova davanti agli affreschi del mese di marzo viene riportato il flusso libero dei suoi pensieri: «Nell’azzurro c’è una donna con un bellissimo vestito rosso seduta a mezz’aria sopra una capra o una pecora dall’espressione impertinente. L’uomo vestito di stracci bianchi. È quello della foto che sua madre ha visto a casa. È lui il motivo per cui si trovano qui. Più in là, dall’altro lato della donna che fluttua sopra la capra, c’è un ragazzo, o forse una ragazza, potrebbe essere sia l’una sia l’altra cosa, che indossa splendidi abiti sfarzosi e tiene in mano una freccia o un bastone e un cerchio d’oro, come se fosse tutto solo un delizioso gioco» (pp. 205-206).

In momenti come questo le due storie si sovrappongono e arrivano in qualche modo a coincidere completandosi. Non importa che abbiate letto prima un pezzo o poi l’altro: entrambi sono rivelatori di qualcosa che precedentemente mancava, così completano il quadro – in tutti i sensi. In un articolo pubblicato sul Guardian nel 2014 a proposito della gestazione di L’una e l’altra, Ali Smith dice una cosa che mi sembra spieghi al meglio il meccanismo sotteso alla narrazione. Racconta di aver letto che dopo l’esondazione dell’Arno nel’66 e i danni che causò a molte opere d’arte conservate a Firenze, la disciplina del restauro si rinnovò enormemente, approcciandosi alla questione in modo scientifico (c’è un documentario di Sky Arte che parla anche di questo argomento, Firenze 66 – Dopo l’alluvione). Per la prima volta si risalì ai disegni originari che stavano dietro ai dipinti danneggiati e grazie a questa tecnica fu possibile compiere dei veri e propri miracoli di restauro.

Superficie et disegno di fondo: è su questo piano che si gioca la partita. Ali Smith coglie un simile sdoppiamento e lo riporta in letteratura: «I’d been wondering if it might be possible to write a book consisting of something like this structure of layer and underlayer, something that can do both». Si chiede: è possibile creare una struttura narrativa che si muova contemporaneamente attraverso i due piani? Quando leggi L’una e l’altra questa domanda è costante, non ti lascia mai.

Ma l’idea di visione ha a che fare non solo con la pittura nello specifico. Nel romanzo si parla di pornografia e di spionaggio – la madre di George crede di essere controllata dai servizi segreti a causa del suo impegno da attivista, e anche George, una volta rimasta sola, eredita questo convincimento. Si parla di fotografia. C’è una foto, in particolare, che in L’una e l’altra è molto significativa. È uno scatto di Jean-Marie Pèrier che negli anni Sessanta ritrasse le cantanti francesi Sylvie Vartan e Françoise Hardy insieme. George riceve quest’immagine dall’amica H (Helena). La cantante bionda, le dice H, le assomiglia un po’. Ancora un volta due piani apparentemente distanti – e due tempi tra loro lontani – finiscono per avvicinarsi e sovrapporsi. (Se ci facciamo caso nella foto le due cantanti guardano in direzione diversa ma non fatichiamo a seguire i loro sguardi fino al punto in cui si incontrano. Ecco, Ali Smith cerca questo tipo di collisione). Infine ci sono le due immagini-icona che aprono le storie e di cui si è già parlato. In una recente intervista per L’Indice dei Libri del Mese, l’autrice ha riassunto così il loro diverso significato: «Con che cosa preferiresti vedere e da che cosa preferiresti essere visto – l’occhio naturale, intrecciato con l’immaginazione estetica, o il singolo ciclopico occhio di una macchina priva di coscienza?». Questa distinzione è ripresa nella scelta di scrivere una storia in prima persona (i miei occhi ti raccontano quello che vedo) e l’altra in terza (il narratore-macchina che riprende le scene dall’alto).

ali-smith-luna-e-laltra4È inevitabile che in questo gioco di rimandi anche il tempo lineare venga meno. Non ci si spiega come (o forse è bello non volerselo spiegare) ma capita che a volte qualcosa avvenuto negli anni Duemila influenzi il modo in cui le cose si succedono nel Quattrocento. Più naturale il contrario. E se è vero che George può osservare Francesco del Cossa ammirando il ragazzo dai lineamenti femminei ritratto nell’affresco, è altrettanto possibile che anche quest’ultimo la stia guardando. Sono vere entrambe: l’una e l’altra cosa.

Un ultimo discorso merita la scrittura, perché l’autrice con questo libro sperimenta molto anche a livello formale (e non a caso ha vinto il Goldsmiths Prize, premio che da sempre si distingue per l’attenzione particolare alla rinnovamento formale). In L’una e l’altra capita spesso che il modo in cui i personaggi si comportano si rifletta sulla forma linguistica – ad esempio l’abitudine di Francesco di intervallare al parlato moltissime pause è ripresa nei dialoghi attraverso un uso inconsueto dei due punti, che segnalano i momenti «in cui si deve riprendere fiato» (p. 135). E allo stesso modo, le pagine di passaggio da una storia e l’altra presentano una formattazione particolare, per così dire a spirale, che a me ha ricordato le eliche del dna, come a segnalare il momento di passaggio in cui due vite fluiscono l’una nell’altra incontrandosi, in un intreccio che va ben al di là del tempo.

È un romanzo davvero notevole, L’una e l’altra, che in Italia non ha ricevuto l’attenzione che merita. Nel Regno Unito ha consacrato l’autrice, e infatti è stato finalista al Man Booker Prize e al Folio Prize, e ha vinto, tra gli altri, il premio Goldsmiths, il Costa Book Awards e Baileys Women’s prize for fiction. Perché, come ha scritto Arifa Akbar sull’Independent: «Smith has written a radical novel, one that becomes two novels, with discrete meanings, through its (re)ordering.[…] How to be both shows us that the arrangement of a story, even when it’s the same story, can change our understanding of it and define our emotional attachments. We may have known this, but to see it enacted with such imagination is dazzling indeed. Those writers making doomy predictions about the death of the novel should read Smith’s re-imagined novel/s, and take note of the life it contains». Insomma, ditelo ad Ali Smith che il romanzo è morto.

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