“KIDS IN THE STREET”
DI JUSTIN TOWNES EARLE

La splendida Americana di Earle Jr.

di / 2 giugno 2017

Un errore molto comune è pensare che autenticità e fruibilità non possano andare di pari passo. È quasi automatico credere che l’autenticità musicale non sia qualcosa malleabile, che debba rimanere fedele a regole date per buone ormai quasi un centinaio di anni fa. Kids in the Street di Justin Townes Earle è, invece, la dimostrazione della falla: l’autenticità si muove insieme agli anni che passano, cambia e si ritratta così tanto che persino l’Americana, con tutto il suo “scomodo” bagaglio di attrezzi country e folk, può parlarci ( e di fatto lo fa) del qui e dell’ora. Ebbene, Kids in the Street è la prova che si può essere i figli di Steve Earle, suonare il roots e avere gli occhialetti hipster, svariati tatuaggi e i risvoltini alla camicia.

Poche cose sono importanti nella critica musicale come lo sguardo storico sulla maniera in cui la musica viene trasmessa da una generazione a quella successiva, in che modo viene recepita, cosa sopravvive e cosa deve morire. E sta proprio qui, in questo processo di diluizione del seme di partenza all’interno di categorie contemporanee, l’eleganza e il talento del cantautore di Nashville, un artista che è riuscito a tenere insieme i nomi di Steve Earle e di Townes Van Zandt con quello di Justin, classe 1982.

Kids in the Street, meno tormentato dei precedenti Absent Fathers (2015) e Single Mothers (2014), ha una consapevolezza e un’originalità tali da renderlo praticamente impeccabile. Ha quello sguardo d’insieme e quel collante tra passato e presente che lo presenta sì meno puro del bellissimo Harlem River Blues (2010) registrato a Nashville, ma sicuramente più complesso e maturo, più adatto.

L’album, stavolta lavorato a Omaha, nel Nebraska, è uscito il 26 maggio scorso senza eccessivo clamore internazionale – conseguenza di un giro di marketing che troppo spesso disprezza tutto ciò che non si confà a un suono neutrale e impersonale, ripudiando qualsiasi espressione folkloristica nel senso più letterale del termine. Ma, così come è stato per il recente Freedom Highways di Rhiannon Ghiddens (ex Carolina Chocholate Drops), sarebbe un peccato se molte tracce del disco non arrivassero oltre i confini americani.

Basti citare, su tutte, “Maybe a Moment”, che ricorda un universo springsteeniano trasferito dal New Jersey a Memphis, l’acustica “Kids in the Street” e la splendida “There Go a Fool” in coda all’album.

È vero, Justin Townes Earle è un musicista artigianale, poco incline a espedienti tecnici troppo distanti da quell’eredità che si porta dietro in quanto del Sud e in quanto Earle. Pezzi come “What She’s Crying For”, con i suoi giri da rodeo raffinato à la Sweetheart of the Rodeo dei The Byrds, e come “15-25”, puro garage-blues, rimandano facilmente ad un mondo quasi acronico per orecchie disabituate a un certo tipo di sound. Ma l’intero lavoro, ascoltato dall’inizio alla fine, crea un’atmosfera ben diversa dalla ruvidità standard di un certo tipo di musica. È molto più autentico, vicino e realistico di quanto non si possa pensare.

 

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LA CRITICA

Ereditare quasi ottant’anni di musica e lavorarla con criteri estetici contemporanei non è un’operazione né facile né scontata. Riuscire a farlo così bene, poi, tantomeno. E allora 100 di questi album, Justin.

VOTO

8/10

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