Will Sheff, se il mito si fa demone
"In The Rainbow Rain", l'ultimo album degli Okkervil River
di Giada Ferraglioni / 27 aprile 2018
La speranza che il titolo In The Rainbow Rain sia niente più che un titolo dura meno di cinquanta secondi, quando il piano iniziale di “Famous Tracheotomies” si trasforma nell’arco di una manciata di note in una chitarra elettrica inequivocabile. E rieccoci qui, dunque; bentornati anni Settanta. Bentornati Okkervil River.
A partire da “The Dream and The Light”, il primo archivio musicale della memoria è costantemente stimolato: Gregg Allman, i The Kinks di Percy, la Joni Mitchel di The Hissing of Summer Lawns, addirittura il Jimi Hendrix di Axis: Bold as Love. Come se non fosse già abbastanza, Will Sheff rende il tutto ancora più tributale eliminando qualsiasi traccia di peculiarità che aveva differenziato, eo tempore, gli artisti che nel decennio degli arcobaleni ci avevano sguazzato davvero. Un’accozzaglia, un’opera di massificazione del fenomeno rock all’interno di un cumulo di cliché coscientemente sistemati a catena.
Nonostante l’imperativo della sesta traccia dell’album, “Don’t Move Back to L.A.”, gli Okkervil sterzano senza pentimento verso le più abusate situazioni laurelcanyane, verso un immaginario standardizzato e semplicistico di quell’universo che era stato, al contrario, estremamente variegato (« Cause those West Coast cats / They’re gonna tune , gonna tune , gonna tune / Gonna tune you out »). La comfort zone è riproposta a gran voce in “Pulled Up The Ribbon”, quasi imbarazzante nella classicità dell’architettura. L’album mantiene una ferma coerenza, fatta eccezione per un’impensabile “How It Is” stile ‘80s, che si affaccia alle porte del disco quando ormai il gioco sembrava definito all’interno del decennio precedente. Fa, però, poco rumore. È una traccia altamente prescindibile che ricorda più lo sfociare originario del roots nel wave che i flirt odierni con il synth-pop.
Diverso era stato Away del 2016. Il gusto jazz e l’impianto indie-folk, sempre e comunque legittimi, non rimanevano né sul piano scanzonato dell’intrattenimento, né su quello indolente della citazione. Anzi, gli strumenti classici della popolare statunitense, uniti al talento narrativo di Sheff (che in In The Rainbow Rain trova decisamente meno spazio), ripercorrevano piacevolmente la musica delle radici passando attraverso i dovuti riferimenti geografici e percettivi. Di quel tipo ti impegno elaborativo che aveva lasciato così ben sperare per i lavori futuri, non rimane nulla se non una manciata di virtuosismi poetici in “External Actor” ( «It’s all I’m looking for / These moments of opaque-eyed knocked-out rapture / Helpless as a cow for the capture / Chosen in a frozen instant») e in “Love Somebody” («My friend he told me that I can’t depend / On anything that doesn’t come from within / Oh but my God, how am I ever gonna help the world / When I can’t even heal the heart of my girl?»).
Vestire miti ed eroi ha sicuramente divertito Sheff e i suoi Okkervil, che tra synth e chitarre recuperano le vulnerabilità emotive di Away. Ma artisticamente parlando, In The Rainbow Rain carica di dubbi quello che Away sembrava invece aver consolidato.
LA CRITICA
Il limite tra ispirazione e tributo è una sottile linea rossa, e le cose non migliorano se il tributo si fa cliché. La band di Will Sheff pecca di superficialità con un album che si rifà al più classico degli immaginari anni 70: California e LSD
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