Prima della distopia
“Il grido” di Luciano Funetta
di Fabrizia Gagliardi / 8 maggio 2018
Percorrere le strade del racconto dell’inquietudine è una delle sfide più interessanti della narrativa contemporanea. Soprattutto perché queste strade devono essere meticolosamente progettate con l’abilità di chi dissemina il percorso di simboli, segni che, astratti e accumulati, si mescolano allo stile tutto personale. Gli esempi di ultima pubblicazione vanno dalle ossessioni orrorifiche di Thomas Ligotti, alla distopia pura della Galaad di Margaret Atwood, fino al weird di Jeff VanderMeer. È l’ibridazione di generi come l’orrore e la distopia a costituire un campo di sperimentazione dalle potenzialità infinite: nessun limite se non quello imposto dalla capacità immaginifica dello scrittore. Guardando all’Italia autori come Luciano Funetta diventano protagonisti di una serie di discorsi editoriali e artistici che testimoniano un cambiamento. Nato dalla fucina di sconfinamento della collana di narrativa Tunué con Dalle rovine, che aveva conquistato la candidatura al Premio Strega, ora Funetta pubblica Il grido e approda ad Altrove, la collana di Chiarelettere diretta da Michele Vaccari.
L’obiettivo dell’editor è di scandagliare il panorama italiano per scovare la “narrativa di anticipazione”: non proprio distopia confezionata per rispondere alle tendenze del mercato, ma visioni che suggeriscono il futuro senza forzature moralistiche. Tutto, ancora una volta, con particolare attenzione allo stile come principale nucleo dell’evento artistico, difficilmente incasellabile in determinate pianificazioni editoriali.
Il grido di Funetta chiarisce meglio gli intenti della collana e acquista un’indipendenza tutta personale nella narrativa di anticipazione.
La protagonista, Lena Morse, convive con l’oblio delle sue origini di cui conosce solo la profezia di una vecchia zingara («sei nata di notte, nel mezzo di una caccia selvaggia»). Della vita sa di essere cresciuta in un orfanotrofio e di aver cercato le promesse per il ritorno all’ignoto, come l’uso di sostanze, nella dimensione quasi parallela dell’Orto botanico. L’universo lavorativo dopo l’orfanotrofio, come una selezione naturale di donne senza un inizio, si riduce all’impiego in un’impresa di pulizie, mentre il vagabondare per il putridume delle strade cittadine crea il mondo familiare e claustrofobico di Lena.
È proprio l’ambientazione a non allontanare così tanto da noi il futuro di Funetta. Già in Dalle rovine la città di Fortezza, da qualsiasi angolazione la si guardasse, era una perenne periferia, annerita dagli scarichi industriali e attraversata da presenze che si palesavano solo come ombre («L’estensione di Fortezza gli apparve come una dimensione orrorifica»).
In Il grido l’ambientazione abbandona il compito di semplice scenografia e acquista maggiore centralità stabilendo corrispondenze più profonde con la storia. Nell’innominata cittadina italiana i trasporti hanno smesso di funzionare all’improvviso, le rotaie abbandonate la attraversano come vene dal sangue coagulato: vengono percorse dai Dormienti, esseri, forse umani, considerati «apparizioni anomale» o semplicemente simbolo di emarginazione estrema: «Non avevano un ruolo, non avevano un’identità, non erano un’invasione né una minaccia, erano una musica o qualcosa di simile».
Nel suo epidemico diffondersi, la decadenza si traduce in prevalenze cromatiche, quasi olfattive che, una volta esplicitamente dichiarate, si espandono a tutto l’ambiente nella percezione del lettore («Finestre illuminate di rosso, di verde, di fasci dorati. Dappertutto c’era una musica ossessiva. Gruppi di persone che aspettavano di essere spinte dentro presidiavano gli ingressi di palazzi in cui erano in corso feste che, presumibilmente, sarebbero culminate con la sparizione di tutti i partecipanti», «Oltrepassarono alcune coppie che scopavano al riparo dell’ombra e sbucarono nel grande incrocio»).
La scrittura di Funetta procede per un contagio a due fasi: nella prima brevi periodi e descrizioni accurate assicurano contorni netti al mondo; nella seconda precipizi di parole, che alludono alla sfera onirica, creano atmosfere deliranti col risultato di guardare la realtà da uno schermo con pessima ricezione.
In fondo il fulcro del romanzo è questo: un costante esercizio di discernimento tra la finzione e la realtà. Prima vittima di tale meccanismo è proprio Lena: visioni improvvise, esseri oscuri aggrappati alle pareti di casa, presenze senza volto che la inseguono sin dall’orfanotrofio: «Il fatto che Lena sapesse con esattezza che tutto non era altro che un’emanazione della sua mente, e che la casa non era altro che una casa, non cambiava nulla».
Se da una parte la narrazione mantiene la sua unità seguendo le vicende della protagonista, dall’altra ci saranno elementi che ne aumenteranno la frammentazione. I differenti piani vitali sui quali vivono le Dame, le entità reggenti dell’orfanotrofio; i ritmi naturali di Mendel, l’essere vegetale motore dell’Orto botanico; la dimensione virtuale del Portale municipale, una piattaforma a cui si accede da terminale, che gestisce l’intrattenimento e le attività dei cittadini, sono tutti dettagli che generano una dimensione delirante in continuo sdoppiamento.
Il punto di origine dal quale il disorientamento crea cerchi concentrici sempre più grandi è una tendenza strisciante: «La popolazione si era trasformata, più che mai, in una smarrita orda di deambulanti, ma nessuno aveva chiesto spiegazioni». La passiva accettazione del mondo, l’omertà di un cambiamento incontrollabile, la spersonalizzazione e il disinteresse sociale, appiattiscono qualsiasi differenza tra bene e male e prosciugano la capacità di distinguerla.
Proprio per questo il lavoro di Funetta si pone in un punto immediatamente precedente alla vera e propria distopia: la rassegnazione umana e il livellamento delle contraddizioni sono gli indizi che generano più piani della realtà senza riuscire a definire quella che corrisponde al vero. Eppure una sola verità prevarrà sulle altre e sarà quella in cui avrà vinto il silenzio.
(Luciano Funetta, Il grido, Chiarelettere, 2018, pp. 176, euro 16)
LA CRITICA
Funetta cattura il momento immediatamente precedente al dilagare della distopia e lo fa con una scrittura che nella sua semplicità dimostra ricchezza ed eleganza evocativa
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