Il Presente dei The National e il passato dei Franz Ferdinand

Matt Berninger e Alex Kapranos al Milano Rocks

di / 12 settembre 2018

Per raggiungere l’area concerti dalla fermata metro Rho bisogna percorrere un lunghissimo viale che taglia in due i resti dell’Expo2015. Sulla destra i vari padiglioni, lo scorrere lento dei nomi dei paesi che hanno aderito e, in lontananza, sulla sinistra, l’Albero della Vita. Una volta arrivati, ci si trova di fronte a quello che oramai è il classico design dei grandi concerti internazionali: al centro l’area svago, ai lati i vari chioschetti dove mangiare e bere, il merchandising delle band, il servizio Token. Una voce dagli altoparlanti spiega dove sono i bagni e i servizi di soccorso. Aggiunge poi che lo show che sta per cominciare sarà ripreso da un drone. In fondo, il palco, dove alle 20 precise entrano i Franz Ferdinand.

Guardare Alex Kapranos e immediatamente pensare che abbia fatto un patto con il diavolo per essere rimasto fisicamente uguale agli esordi, è un campanello d’allarme: nonostante la performance sarà notevole, il pensiero di assistere a un qualcosa che appartiene a un’altra epoca è costante e, in qualche modo, tenero. Perché i Franz Ferdinand sono un determinato periodo storico, si allacciano a un momento che è sicuramente qualcosa che non c’è più. Per la musica e, chiramante, per chi è lì ad ascoltare. E ci si trova lì ricordando, facendo i conti con il proprio rapporto con ciò che è stato, con gli intrecci che legano quagli anni a quel preciso momento: non esiste, infatti, un’idea di presente che possa ruotare intorno alla band scozzese. Quantomeno è superflua. L’ultimo album, Always Ascending, infatti, seppur buono, è solo l’ultimo album dei Franz Ferdinand. Non c’è traccia dell’Oggi.
Ed è tutto questo – oltre, e non sarebbe potuto non essere così, all’ultra precisione con cui hanno suonato – che rende il loro concerto emozionante. Da “Take Me Out” a “No You Girls”, passando per “The Dark Of The Matinée” e “This Fire”, gli scozzesi hanno riproposto un repertorio che è una pietra miliare dell’indierock di metà anni 00.

Ma la sera piano piano si posa su Milano. L’Albero delle Vita, bellissimo, inizia a illuminarsi sullo sfondo: un grande Alex Kapranos – cantante, chitarrista, mattatore e intrattenitore infallibile per un’ora – saluta tutti e i Franz Ferdinand escono di scena.

È tempo di cambiare il palco. Alle 21.40 salgono sul palco i The National. A differenza dei colleghi scozzesi, la band di Cincinnati è costantemente contaminata di presente. Nonostante siano due band coetanee, la differenza è palese: ogni produzione dei The National è una costruzione del presente verso il futuro, mentre quella di Kapranos scorre come un viaggio a ritroso.

E c’è lui, Matt Berninger. Ciò che fa di Matt Berninger un performer eccezionale e sui generis risiede in una serie di aspetti che sembrano in contrasto tra di loro: la sua aria seria da professore universitario e l’essere sbronzo, le discese verso il pubblico, nella folla e con la folla, alternate a momenti di chiusura, dolore e rabbia accovacciato sul palco. Atteggiamenti che riesce a calibrare con sporca eleganza. Matt Berninger calca i palcoscenici del mondo con la grazia e la coscienza di una rockstar che ritrova se stesso e i suoi demoni durante i suoi concerti.

Questo Venerdì di inizio settembre non può non iniziare con questo piglio: la carica di intimità e disperazione con cui canta “Nobody Else Will Be There” e la rabbia di “The System Only Dreams In Total Darkness” creano istantaneamente un legame con il pubblico. Un calore che, nonostante il contesto dispersivo, accompagna per tutta l’ora e quaranta l’esibizione. Perché dietro a un Berninger che a volte dimentica le parole, a volte non è preciso nell’intonazione, a volte dà l’idea di non voler far altro di voler sparire dal palco perché l’esistenza è veramente troppo dura da sopportare – ma che come i grandi riesce trarre forza da tutto questo  –, c’è una band che suona in maniera superba e con un cuore enorme: dai fratelli Dessner alla chitarre e al piano, ai fratelli Devendorf al basso e alla batteria, ai fiati, siamo di fronte ad artisti che riescono a disegnare intelaiature melodiche, armoniche e ritmiche sensazionali.

C’è molto Sleep Well Beast, ma si torna anche indietro nel tempo, da Trouble Will Find Me, High Violet e Boxer fino a Alligator e Cherry Tree. I The National si confermano uno dei giganti della musica di oggi, in studio come dal vivo: l’intrinseca capacità nel saper fare delle cose belle, per loro, per la musica e per il pubblico; la dose di sensibilità nel riuscire a spostare l’onda che tratteggia le varie sfumature emozionali da una parte all’altra nel modo più delicato possibile: perché quello che succede nel finale, da “Fake Empire” a “Mr. November”, chiudendo con il dittico che potrebbe essere un trattato sulla letteratura di tutto ciò che è l’amore tra due esseri umani, “Guilty Party” e “About Today”, è una materia che solo i grandissimi sanno possedere.

Il concerto si chiude con l’ormai classica versione unplugged di “Vanderlyle Crybaby Geeks”. I The National escono dal palco. La notte inizia a farsi largo mentre l’Albero della Vita continua illuminarsi: il lungo viale per la metro ora è un altro posto: non si capisce se più familiare o più alieno. Sicuramente più fragile.

 

Scaletta

 

FRANZ FERDINAND:

“Do you want to”
“The dark of the matinée”
“Glimpse of love”
“Always ascending”
“Walk away”
“No you girls”
“Lazy boy”
“Michael”
“Feel the love go”
“Love illumination”
“Ulysses”
“Take me out”
“This fire”

THE NATIONAL:

“Nobody else will be there”
“The system only dreams in total darkness”
“Don’t swallow the cap”
“Walk it back”
“Guilty party”
“Bloodbuzz Ohio”
“I need my girl”
“Slow show”
“Light years”
“Day I die”
“Carin at the liquor state”
“Graceless”
“Rylan”
“Fake empire”
“Mr. November”
“Terrible love”
“About today”
“Vanderlyle crybaby geeks”

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