Cosa scriviamo da giovani: l’autobiografia per feticci di Ezio Sinigaglia
A proposito di “Il pantarèi”
di Giovanni Bitetto / 19 marzo 2019
Il buco nero è una figura evocata spesso in Il pantarèi – romanzo d’esordio di Ezio Sinigaglia, pubblicato nel 1985 e tornato a nuova vita per i tipi di TerraRossa –, quel buco nero che rischiava di inghiottire anche un autore dalla penna così riconoscibile. Sinigaglia scrive questo romanzo fra il ’76 e l’80, in una stagione in cui il dibattito letterario sullo sperimentalismo sparava le ultime cartucce. Si gridava alla morte del romanzo, fagocitato dall’idea di una ricerca più “alta”; arriveranno gli anni ottanta e i successi del postmodernismo echiano a rilanciare una forma al giorno d’oggi diventata egemone. Sinigaglia, preso dagli astratti furori della giovinezza (che inaspettatamente si rivelano i primi segni della maturità), si mette in testa di scrivere un romanzo sì sperimentale, ma in grado di dimostrare ai critici il contrario di ciò che andavano vaticinando: ovvero che il romanzo – inteso come storia, stile, emozioni – era vivo e vegeto.
Ne nasce un’opera ibrida, capace di stimolare la speculazione e al contempo di generare l’identificazione con un personaggio tridimensionale. Daniele Stern viene incaricato di redigere una breve storia della letteratura del Novecento da inserire in un’enciclopedia. Stern, sulla scorta delle letture di Sinigaglia, compone il suo canone personale e notte dopo notte dà forma alla propria interpretazione del Novecento letterario. L’autore convoca i massimi esponenti del romanzo modernista: Proust, Joyce, Musil, Kafka, Svevo, Cèline, Faulkner, Robbe-Grillet, e costruisce un ragionamento su ognuno di essi; la prima colonna dell’opera di Sinigaglia poggia saldamente nel campo della saggistica. Prendere di petto autori tanto importanti non è cosa da poco, e già questo testimonia le ambizioni dell’autore; ma un romanzo di pura elucubrazione sarebbe sterile senza una degna controparte narrativa. È qui che la storia di Stern acquista di qualità: ai capitoli saggistici se ne alternano altri narrativi, in cui sono descritte le vicende quotidiane del compilatore, l’amore e i litigi con la moglie Anna, le fughe e i ritorni, gli incontri e le discussioni con gli amici. Sinigaglia dona a Stern una personalità patchwork: una sintesi del Bloom joyciano, dell’inetto sveviano , dell’uomo senza qualità musiliano.
Ma non è questo a stupire del romanzo, è lo stile che ingolosisce il lettore: le avventure di Stern sono narrate prendendo in prestito la scrittura di ogni autore trattato; si va dal flusso di coscienza all’argot céliniano, passando per il periodo barocco di Proust e Faulkner, per la scrittura introspettiva e misteriosa di Kafka e Svevo, per l’enciclopedismo di Musil e lo sperimentalismo di Robbe-Grillet.
È come se, nell’agone della prosa, Sinigaglia volesse mettersi alla prova: da una parte ricostruendo le sue vicende di lettore e provando a tirare le fila dei propri giudizi, dall’altra saggiando la tenuta stilistica degli autori tanto amati, attraverso l’esercizio di una prosa infinitamente cangiante. Nel rapportarsi con i maestri l’autore non sembra un epigono, uno stanco parodiante, al contrario si staglia la figura di uno scrittore ambizioso, capace di confrontarsi con i grandi modelli e ridare nuova vita alle varie incarnazioni della prosa. Nell’opera di Sinigaglia c’è il piacere di una scrittura che si svela a sé stessa, un processo di torsione della forma, di adattamento dello stile alle mille vicende del reale.
Figlio dello sperimentalismo, questo romanzo non si chiude nel confortevole recinto del gioco ipercolto, allo stesso tempo non si incarta nel sentimentalismo che spesso permea l’enciclopedia delle cose amate – come può avvenire per esempio nei prodotti di feticismo letterario di Michele Mari. Quello che colpisce è l’assoluta equidistanza dai modelli, un tributo che non diviene mai prostrazione servile; a Sinigaglia interessa rinnovare la forma, far sì che la tradizione generi vettori nuovi in grado di raccontare vicende quotidiane. Così l’epica di Stern, come avveniva decenni prima nei laboratori linguistici di Musil e Joyce, diventa il pretesto per affermare – a sé stessi e al mondo – che la parola può espandersi e contrarsi, adattarsi all’espressione di un reale complesso.
C’è solo da togliersi il cappello verso l’atto di fede che il giovane Sinigaglia ha fatto alla letteratura: non una preghiera lanciata nel vuoto, ma un articolato sermone del quale, restituito alla stampa dall’oblio, possiamo godere anche noi. Il pantarèi ci testimonia che, se il romanzo non morirà mai, è soprattutto grazie a chi si mette in testa di raccogliere tutto ciò che di buono è stato fatto e poi, coraggiosamente, compie un passo avanti nella perpetua ricerca, in direzione del buco nero che domina l’orizzonte.
(Ezio Sinigaglia, Il pantarèi, TerraRossa, 2018, pp. 318, euro 14, articolo di Giovanni Bitetto)
LA CRITICA
Un romanzo bifronte in grado di stupire per la scrittura colta, cangiante, letteraria. Un’opera ricca di riflessione e passione, l’entrata in scena di un autore solido e virtuoso.
Comments