Un tentativo di fallimento letterario

“Il dono di saper vivere” di Tommaso Pincio

di / 13 maggio 2019

Copertina di Il dono di saper vivere di Tommaso Pincio

L’ultima opera di Tommaso Pincio, Il dono di saper vivere (Einaudi Stile Libero, 2018), è uno di quegli oggetti letterari che sembra sfuggire a facili catalogazioni: è in parte una narrazione biografica perché ripercorre tratti della vita del Caravaggio, in parte autobiografica perché mischia alla biografia dell’artista lombardo episodi della vita dell’autore stesso.

Da un lato, il racconto di un uomo rinchiuso in una cella per un omicidio che afferma di non aver commesso, dall’altro la storia dell’autore e dei suoi anni trascorsi in una galleria d’arte posizionata nel labirintico centro della Roma barocca.

L’autore imbastisce non una, ma più storie senza trama, per realizzare un’opera ibrida in cui si confronta con il faticoso e doloroso atto del narrare; nell’inseguire l’ombra di Caravaggio, Pincio orchestra un romanzo sull’indugiare nella scrittura e si confronta con l’ansia del fallimento del suo tentativo letterario.

Il romanzo abbonda di spie intertestuali, seminate ovunque. Per dare un’idea del fitto sistema di corrispondenze letterarie e artistiche che sono dietro il lavoro di Pincio, basti la vertiginosa lista di citazioni racchiusa solo nei primi capitoli: il romanzo si apre con la descrizione delle geometrie asfissianti e degli elementi della cella in cui il protagonista è recluso, che alimentano il rimuginio della voce narrante; la finestra con le sbarre orizzontali e quelle verticali della porta, i libri impilati, lasciati lì e non letti, tra cui l’Educazione sentimentale di Gustave Flaubert; altro richiamo letterario è quello al grande romanzo dell’attesa e delle aspettative, Il deserto dei Tartari, che viene spesso tirato in ballo per evocare la sensazione di stasi che prova il narratore quando confinato in attesa dell’arrivo di avventori nella galleria d’arte.

La voce del narratore ha un tono schietto e disilluso, che mette in fila considerazioni sulla sua vita, non ammantando mai la candida insofferenza che prova verso di sé. Il monologo prosegue quasi senza pause, se non per le interruzioni di alcune enigmatiche figure che presenziano nella prima parte; tra queste, troviamo l’avvocato del carcerato, personaggio effimero e sfuggente che ricorda le apparizioni nabokoviane di Invito a una decapitazione, unica presenza umana a consolare l’animo del recluso, con scarsi risultati. Incapace di dare una svolta eroica alla propria vita, il protagonista continua a rileggere gli eventi della sua esistenza continuamente; viene ricreata nella scrittura una forma ossessiva del rimuginio, l’arte di star fermi a guardare le cose per vederci dentro simboli, presagi e indizi della manifestazione del destino.

A circa metà libro la narrazione si interrompe bruscamente. Dalle sbarre delle carceri il racconto si sposta, per condurci al centro di una caotica Roma barocca, precisamente nei luoghi delle scorribande caravaggesche, dove prende avvio il tracciato autobiografico. Per fatalità la galleria in cui l’autore ha lavorato per anni è proprio in via di Pallacorda numero 17, sede del famigerato delitto di Caravaggio.

L’autore comincia così un’indagine parallela su Caravaggio, realizzando un saggio che ripercorre il mito dell’artista nelle forme che ha assunto nel tempo, alla ricerca dei motivi per cui «Caravaggio si vende sempre, è la mania del suo tempo». Pincio passa in rassegna informazioni storiche, letture iconologiche di quadri, vite di critici d’arte, dicerie, chiacchiericci e maldicenze sul pittore, senza operare una distinzione tra materiali documentari più attendibili e quelli appartenenti alla narrazione popolare.

La ricostruzione quindi affronta svariati temi, per esplorare le manie di uno degli artisti che sembra aver ossessionato tutti, facendo in particolar modo leva sul misterioso fascino costruito sulla sua biografia e sull’opera. Ciò che è a cuore all’autore è scoprire perché la vita di Caravaggio si offra a una narrazione più accattivante per il pubblico rispetto ad altri, andando oltre la semplice messa a fuoco del fascino saturnino del personaggio maledetto.

La complessa struttura del romanzo tiene insieme un’identità fittizia e una reale; tra queste due dimensioni ci sono continui scambi e la narrazione procede facendo costantemente dentro e fuori dalla cornice metaletteraria e sembra che mettendo in crisi questa soglia si determini il senso di inconcludenza che Pincio cerca di rendere con la sua opera.

«Concepire racconti dove il piano della realtà si confonde con quello della finzione è un gioco molto rischioso. A spingerlo troppo oltre, si finisce come niente in uno stato prossimo alla follia in cui i due mondi sembrano sfuggire al controllo del narratore per comunicare tra loro e, come fossero attività pensanti, autonome e mosse da uno scopo preciso quasi malefico, dànno l’impressione di passarsi informazioni di nascosto e scambiarsi i ruoli.»

Ricorda Martin Middeke, autore di uno degli studi pioneristici sulle biografie che ibridano fatti e finzione, che in questo tipo narrazioni (da lui definite con il neologismo biofiction) il rapporto tra autore e protagonista della biografia non è mai causale. La differenza rispetto ad altre biografie di finzione è che in questo caso il personaggio di Caravaggio è messo a confronto diretto con l’autore, il quale si esplora e si racconta tramite un sistema di specchi che coinvolge il personaggio “biografato”.

Questi aspetti fanno di questo romanzo un’opera molto più grande di quanto sembri, nella quale si ha una linea del metaromanzo, con la sua complessità strutturale, un’altra saggistica, sugli aspetti della vita di Caravaggio ricostruita e le finali considerazioni sul realismo della sua arte e quella autobiografica, che a sua volta si confonde e flirta con il metaromanzo iniziale; frammentando l’identità del narratore in due, tra il falso specchio e la storia del gallerista, la vita stessa di Caravaggio è chiamata a costruire il significato più profondo della storia e spiegare qualcosa sulla vita stessa dell’autore, per condurci nel nucleo intimo del vizio condiviso da tutti i personaggi, quel «dono di non saper vivere», attorno a cui Pincio allestisce il suo tentativo di fallimento letterario.

 

(Tommaso Pincio, Il dono di saper vivere, Einaudi Stile Libero, 2018, pp. 200, euro 17,50, articolo di Valentina Barisano)
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LA CRITICA

Un’opera complessa, che orchestra uno scambio di significati tra due vite molto diverse: quella di Caravaggio e quella dell’autore, che si illuminano a vicenda, realizzando un ritratto (e un autoritratto) unico e originale.

VOTO

8/10

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