Un’istantanea delle nostre vite a ribasso

A proposito di “L’anno che Bartolo decise di morire” di Valentina Di Cesare

di / 31 luglio 2019

Copertina di "L'anno che Bartolo decise di morire" di Valentina Di Cesare

L’anno che Bartolo decise di morire (Arkadia, 2019) non accadde poi nulla di particolare in città: le solite cose, diciamo, che accadono in provincia a ognuno di noi, cose che si ripetono ormai quasi senza lasciare dietro di sé un’eco, un lascito, ma solo vuoto, assuefazione quasi, rassegnazione. Ma non per Bartolo, e infatti queste cose che accadono e non accadono finirono per portarselo via. 

È in un clima di apparente immobilità che si dipana il secondo romanzo della scrittrice abruzzese Valentina Di Cesare, autrice anche di Marta la sarta (Tabula Fati, 2014), di recente tradotto in rumeno e in spagnolo. Un’apparente immobilità che rappresenta appieno la vita e il tempo delle città di provincia italiane al giorno d’oggi: attraversate, sconvolte persino, da piccoli o grandi eventi personali, sociali, delittuosi, economici che hanno la durata di post, di un tweet, di un servizio al telegiornale, di un attimo di commemorazione, per poi ritornare tal quali erano prima dell’accaduto; come paludi che tutto affossano, dove tutto scompare.

La trama del libro di Valentina Di Cesare è nelle nostre home di Facebook, nelle nostre televisioni, nei nostri quotidiani, come nelle chiacchiere al bar dove siamo soliti andare, o nelle cene in famiglia, o nel tempo passato con gli amici: piccole insoddisfazioni che trapelano, il desiderio di fuga, di cambiar vita, le crisi di coppia; e poi la grande fabbrica che chiude, l’infinita crisi economica, l’amicizia che, con l’avanzare nell’età matura, perde di profondità, di empatia, e i confronti che diventano sfoghi, l’ascolto che diventa scontro, l’opinione che diventa giudizio. Nella città di Bartolo non succede nulla di più o di meno di ciò che viviamo quotidianamente nelle nostre. L’esistenza di Bartolo è come la nostra, il suo gruppo di amici è simile al nostro, la sua routine potrebbe appartenere a ognuno di noi.

In questo quadro, Bartolo pare essere l’unico elemento fuori schema, la scheggia impazzita, o forse, più esattamente, la bussola, lo specchio attraverso il quale è possibile riflettere la narrazione del tempo, degli eventi. Bartolo non è una persona speciale, è solo quello che gli amici definiscono il più sensibile, il più attento, quello che in caso di bisogno c’è sempre. Ma in questa umanità e in questa socialità che, irrimediabilmente, sembrano tendere al ribasso, Bartolo è anche colui sul quale gli eventi non passano senza lasciar traccia, colui nel quale la quiete non torna dopo la tempesta. E si danna, si dispera, ma in silenzio, come non avesse più attorno un mondo empatico, un mondo che sappia metabolizzare il vissuto.

L’anno che Bartolo ha deciso di morire è, dunque, un romanzo intimista, nel quale però il tentativo di tracciare le peculiarità dell’animo umano sembra perdersi, ridursi assieme all’oggetto di ricerca. Le descrizioni delle scene sono quasi completamente assenti, l’azione stessa è ridotta al minimo. Le scenografie, gli ambienti, la città non hanno caratteristiche, tratti distintivi, sono luoghi sempre possibili altrimenti che rimandano a un’intima alterità: luoghi da approfondimenti televisivi pomeridiani, un po’ nostri e un po’ di nessuno, in cui immedesimarsi e in cui sentirsi alieni; esattamente come nelle nostre città.

Solo i dialoghi fanno differenza. Dialoghi che non sembrano dialoghi, ma monologhi, nei quali si dispiega una lingua, quella della Di Cesare, sempre calibrata ai personaggi, sapiente di un sapere reale, idoneo, mai sopra le righe, mai fine a se stessa. I personaggi sembrano disperati attori a un provino o, di contro, saggi interpreti in un teatro senza platea né galleria; portatori di frustrazioni, di sfoghi o di conoscenza e di idee senza sponda, autoreferenziali, così simili a quanto disseminiamo giorno dopo giorno sui social network. Monologhi però, che in questa continua autonarrazione, finiscono per fare il gioco dell’autrice, la quale attraverso essi può esprimere e ricucire quei tratti d’intimità che stiamo perdendo; quasi a dire, a testimoniare, che se stiamo smarrendo la via del dialogo non è perché non abbiamo più nulla da dirci, ma perché non sappiamo più ascoltarci, non riusciamo più a comprendere il valore dell’altro, della reciprocità.

La sacralità dell’amicizia e la sua trasformazione in banale frequentazione, l’amore e la sua fine disperata, la crisi e il suo superamento, il tempo e il tempo che sappiamo dedicare a queste cose intime, a noi stessi e alle persone che abbiamo intorno: questi sono, in definitiva, i veri oggetti del romanzo. E Bartolo, con il suo sacrificio, altro non ci suggerisce che senza una vera partecipazione e una profonda condivisione – la via che abbiamo imboccato – la vita, in fondo, non vale la pena di essere vissuta.

(Valentina Di Cesare, L’anno che Bartolo decise di morire, Arkadia Editore, 2019, pp. 112, euro 13, articolo di Alessandro Chiappanuvoli)
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LA CRITICA

Siamo di fronte a un piccolo libro amaro, che pagina dopo pagina si fa specchio di ciò che stanno diventando le nostre società, che stiamo diventando noi stessi. Urgono con questo libro pazienza, coraggio e molta autocritica.

VOTO

7/10

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