Il petit pain de mur jaune, o la modernità come ossimoro

Da “Ulisse di Joyce a “L’urlo e il furore” di Faulkner

di / 11 settembre 2019

Petit pain de mur jaune

La scrittura di Joyce (1882-1941) e quella di Faulkner (1897-1962) sorprendono per la caratteristica di lasciare, entrambe, una sensazione complessiva di estrema e lucida sottigliezza di ogni particolare, quanto al contempo di criptica oscurità dell’insieme. La particolarità ossimorica di quest’aspetto risulta particolarmente evidente in Ulisse (1918) e in L’urlo e il furore (1929), opere certo diversissime tra loro, ma che muovono alla medesima fascinazione per lo stratificarsi inesauribile dei livelli di lettura e il raffinato incastro di toni e stili, secondo una capacità del tutto nuova di rappresentare le cose, allo stesso tempo distinta ed enigmatica, chiara e misteriosa, così come avviene nei sogni. Questi due capisaldi della letteratura del Novecento ci restituiscono, in sostanza, la quintessenza della vita e dell’arte moderna: lo spaesamento e la solitudine di fronte alla cangiante nebulosità del mondo, incomprensibile e scisso, dove tutto è polivalente e inafferrabile. 

Fondamentale dunque è risalire, come chiave di lettura tanto per Ulisse quanto per L’urlo, al concetto di modernità e al suo significato. Il primo ad avvalersene come categoria di giudizio dell’opera d’arte, come noto, è stato Baudelaire, che così la definisce nel cap. IV di Il pittore della vita moderna (1863): «È il transitorio, il fuggitivo, il contingente». E ancora: «Quell’indefinito che ci deve essere permesso di chiamare la modernità, giacché manca una parola più conveniente per esprimere l’idea a cui rimanda». L’acutezza della sua analisi consiste cioè nell’aver intuito, con netto anticipo sui tempi, proprio quel quid di frammentarietà, indefinitezza e ambivalenza che agisce da spartiacque tra un prima e un dopo, caratterizzando il mondo nuovo nato dalla rivoluzione industriale.

Intuizione questa che Walter Benjamin, nei suoi studi critici sull’argomento, sistematizza già dagli anni Venti del secolo scorso, quando comprende come quel disorientamento, dovuto all’indecifrabilità dei segni della vita moderna e alla disarticolazione della temporalità quotidiana, preconizzi il dissolvimento di ogni funzione eroica dell’arte, così come la perdita dell’aura poetica. In sintesi nella società attuale, che scienza e tecnologia hanno modificato dalle fondamenta, la coscienza, il sapere e la memoria sono rimessi profondamente in discussione. L’uomo, costretto a vivere in una società sempre più complessa, disgregata e in continua metamorfosi, è ridotto a flanêur, semplice osservatore la cui visuale è quella curiosa, stupita, – affascinata ma non idealizzante – degli «occhi senza sguardo» di Baudelaire. Sfuggendo la comprensione della totalità del reale e del suo profondo significato, l’attenzione ripiega dunque sui dettagli, sulle cose minime, sul banale che affiora in superficie. L’arte scesa dal suo piedistallo non spiega più il mondo, si limita a metterlo a nudo.

Chiarificatore a questo riguardo, negli stessi anni di L’urlo e di Ulisse, è il petit pain de mur jaune descritto da Proust in La Prisonnière (1923), il quinto libro di La recherche. Il celebre brano ci parla della morte dello scrittore immaginario Bergotte – ispirato ad Anatole France (1844-1924) e Paul Bourget (1852-1935) – il quale è colpito da infarto di fronte alla “Veduta di Delft” dipinta da Vermeer, quadro da lui già conosciuto e amato, ma dove per la prima volta scorge una piccola ala di muro giallo, apparentemente insignificante eppure al contempo, e in un modo del tutto nuovo, assolutamente fondamentale, tanto da morire pronunciando le parole: «Piccola ala di muro giallo con una tettoia, piccola ala di muro giallo». Perché?

Il personaggio proustiano si aggira per il museo Jeu de Paume, e mentre ne visita le sale è colpito da un pensiero che lo turba: «Passò davanti a molti quadri ed ebbe l’impressione dell’aridità e dell’inutilità di un’arte così artificiosa, e che non valeva le correnti d’aria e di sole di un palazzo di Venezia, o di una semplice casa in riva al mare». Ma è solo davanti alla “Veduta” che questa iniziale folgorazione si concretizza in una riflessione sul proprio stile letterario, emozionandolo nel profondo.

Mentre osserva il quadro, è attratto irresistibilmente dalla compiuta perfezione proprio di quel particolare angolo sulla destra della tela, dove si accorge di piccoli personaggi in blu, della sabbia rosa e infine della preziosa materia della piccolissima ala di muro giallo, dettagli sorprendenti che precedentemente non aveva mai notato. «È così che avrei dovuto scrivere… I miei ultimi libri sono troppo secchi, avrei dovuto stendere più strati di colore, rendere la mia frase preziosa in sé, come quel piccolo lembo di muro giallo».

È la prima volta che in un romanzo viene colto in modo così netto l’esprit della modernità: il banale del quotidiano, ciò che a prima vista sfugge perché non ha in sé nulla di eroico o di sublime, diventa il protagonista capace di catalizzare lo sguardo, il perno attorno al quale ruota tutto il resto. Nell’impossibilità di legare la totalità del reale in un significato univoco capace di spiegarla, oggi l’arte ne raccoglie i lacerti, staccati dal proprio contesto eppure finalmente capaci di assumere, individualmente, un senso e una dignità sconosciuti alle epoche precedenti. La modernità, in sostanza, vuole che non accada niente. Né epiche battaglie, né vicende di figure mitologiche, né grandi accadimenti storici. Solo un muro, della sabbia rosa, delle figure in blu appena intraviste.

 

L'urlo e il furore faulkner
Ma c’è di più: tale ambiguità è intrinseca non solo all’episodio di Bergotte in sé e per sé ma allo stesso petit pain de mur jaune. Difatti esso non esiste, inutile cercarlo nel quadro di Vermeer. Proust ne ha sovrapposto due particolari, un tetto inondato di sole – dunque giallo – nella zona interna destra e due muri chiari sullo sfondo al di là di un ponticello basculante, scambiato per una tettoia, all’estremità sempre destra dell’opera. Elemento di straordinaria novità, questa sfuggente ambivalenza non solo significante ma anche descrittiva, che ritroviamo quale caratteristica costituente sia di Ulisse che di L’urlo e il furore.

Enigmatica inafferrabilità che per quanto riguarda il testo di Faulkner si trova già nel titolo, in riferimento alla famosa frase della quinta scena dell’atto quinto di Macbeth: «La vita non è che un’ombra che cammina, un povero commediante che si agita sulla scena del mondo, per la sua ora, e poi non se ne parla più. Una favola raccontata da un’idiota, piena di rumore e di furore, che non significa nulla». Dunque impossibilità di chiarire l’indecifrabile confusione del mondo – già intuita dal genio di Shakespeare ed ora assurta a cifra costitutiva della contemporaneità – che L’Urlo organizza sul doppio binario tanto del significato quanto della sua rappresentazione.

Gli eventi infatti sono suddivisi in quattro capitoli relativi a episodi cronologici frammentati e distanti tra loro, ciascuno dei quali affidato ad una diversa voce narrante con un linguaggio suo proprio – dal tono alto al tono basso, dall’iperbolico al conciso, dal gergale allo stream of consciousness secondo una destrutturazione del romanzo che vede i dettagli quali veri protagonisti rispetto alla trama, esplosa in mille brandelli il cui significato, più che a quel che accade, è affidato alle ombre di ricordi innestati dall’insignificanza elusiva delle minuzie: semplici suoni, colori e odori, pure sensazioni tattili, figure che ondeggiano in movimento dentro le prospettive vertiginose di quando sogniamo, ad occhi aperti o chiusi. È questo il senso, è questo il valore. Come nel racconto di Benjamin che, affetto da ritardo mentale, confonde fra loro piani temporali, memorie e presente; nelle frasi spezzate del flusso di coscienza di Quentin, specchio del suo tortuoso legame incestuoso con la sorella Caddy; nella puntigliosa meticolosità dei brani affidati a Jason, il fratello freddo e calcolatore; non meno che attraverso il punto di vista semplice e oggettivo di Dilsey, la governante nera testimone esterno delle tempeste della famiglia Compson, alla quale solo nell’ultimo capitolo è affidato un ordine della narrazione di impronta più tradizionale.

 

ulisse james joyce


Lucida perfezione dei particolari e sfocamento onirico dell’insieme che ritroviamo in Ulisse, il cui stile narrativo che varia dal registro parodistico al dottrinale al monologo interiore,
passando per giochi di parole e riferimenti slang, è diviso in diciotto parti racchiuse in tre capitoli: “Telemachia”, “Odissea” e “Nostos” – chiaro riferimento al poema omerico – seguenti ciascuno lo svolgimento cronologico di una stessa giornata (il 16 giugno 1904), nella quale ai personaggi che vi prendono parte per le vie di Dublino accadono eventi trascurabili e comuni della vita di tutti i giorni. Il tempo è tuttavia lineare solo apparentemente, in realtà sfuggente e immateriale quanto lo stesso protagonista Leopold Bloom, novello Ulisse non già singolo individuo narrante bensì insieme di coscienze frammentate. Viaggio di un giorno che, come quello dell’eroe di Omero, simboleggia l’avventura dell’uomo moderno alla ricerca della propria identità, nell’incoerente disordine di una realtà ormai senza punti di riferimento.

Tra i romanzi più importanti della letteratura del ventesimo secolo, Ulisse e L’urlo e il furore hanno saputo entrambi dare magistralmente espressione a quell’ossimoro che caratterizza l’incomprensibile modernità, con la sua nuvolosa leggerezza tanto simile all’oscurità misterica dei sogni eppure dalle sfumature così nitide, e di fronte alla quale ciascuno di noi – come un Leopold Bloom naufrago della società contemporanea o come i Compson, travolti  dal declino della propria famiglia – si trova smarrito e confuso nella propria individuale solitudine, alla costante ricerca di nuovi orientamenti per il domani.

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