Una storia semplice, quella di tutte le nostre metà

“Quella metà di noi” di Paola Cereda

di / 12 settembre 2019

copertina di Quella metà di noi di Paola Cereda

Prima fu la volta di Allan, che invece di avvoltolarsi nel suo benevolo piumone e lasciarsi celebrare da ammaestrato centenario, preferisce deviare, strappa il copione fitto di brodi e sonnellini e scappa dall’ospizio. Defenestra ogni programma, tutto quello che ci si attenderebbe da un candidato al rigor mortis come lui e diventa neanche a dirlo protagonista di un turbine insolente, anche più di un ragazzino. Grande successo editoriale quello di Jonas Jonasson, “anziano” ormai di un bel decennio, e del protagonista del suo romanzo sgangherato.

Di lì a un pugno d’anni una raffica di titoli fiuta l’umore di quella stagione. Ciascuno con il suo timbro, con l’accento ammansito di chi allenta il passo (ma non il pensiero) o con l’impeto che gratta sotto la scorza del cappotto. Da Piangi pure di Lidia Ravera, a La banda degli invisibili di Fabio Bartolomei, transitando per In viaggio contromano di Michael Zadoorian, E poi Paulette di Barbara Constantine, fino a Etta e Otto e Russell e James di Emma Hooper. L’elenco si arresta per il semplice bisogno di non farlo debordare. Ma parlerebbe di esorbitanti altre storie. Forse perché la prospettiva di vita ci lascia credere con gusto (non si sa per quanto ancora) di avere vallate di tempo stampato davanti al presente, forse perché a quarant’anni siamo in piena fase post-adolescenziale e abbiamo deposto da poco le pomate antiacne.

Forse perché è bello autoconvincersi che ci sia comunque un traguardo intatto, un’epopea del non vissuto pronta a farsi accarezzare, una seconda, quinta, ottava giovinezza che chiede solamente di essere scartata.

Ma insomma, il fatto è che la terza età non sembra più l’ultima del podio. Scala posizioni, esige udienza, scalcia di trame e scoppia d’incanti.

Quella metà di noi di Paola Cereda (Giulio Perrone editore, 2019), tra i dodici finalisti dello Strega di quest’anno, aggiunge la sua voce assegnandola a Matilde. La sua vicenda è quella di una sessantenne, incastonata nel suo angolo di periferia torinese, un quartiere col nome che sa di condanna, Barriera. Ma ovviamente non è quello l’unico confine che la irretisce. È un’ex insegnante in pensione e ora si ritrova badante, proiettata in zona altoborghese ad assistere fatiche e lamenti di Giacomo, ingegnere sconfitto da un ictus e recintato nel letto.

Non è facile ingollare il tono direttivo di sua moglie Laura, le bizze di Dora, la governante romena, le diffidenze di un uomo prima avvezzo al comando e poi incollato alle mani altrui solo per sopravvivere.

Eppure, in quel poligono estraneo in cui si accampa come un’intrusa, Matilde riesce a ritagliarsi un orlo di resistenza. Anche perché il resto non sorride, il resto non è meno ingarbugliato. Pendono nodi sulla sua testa.

È rimasta vedova quando ancora il suo ventre si allagava di progetti, con una figlia piccola che non le ha mai perdonato di non essere morta al posto del padre. Ha educato i bambini sognando le piante, cercando nell’orto il suo respiro sotterraneo. Ha carpito ben poche occasioni, un lavoro di consolazione, qualche frattaglia di conforto che le piove dal vicinato, dalla pelle abbattuta di chi le abita accanto.

L’amore per lei è un gambo reciso, un dono negato. E Matilde si abitua a innaffiarsi a metà. A tastare soltanto un emisfero di sé. Finché non bussa un altro viso, troppo giovane ma capace di spiaggiarsi dentro le sue rughe e allestire un riparo. Le sembra di poter ricominciare, in un altro abbraccio, in un’altra città, nel gorgo di una giostra in cui sentirsi premiata. Finalmente.

Ma la realtà è diversa, gracchia altre conclusioni. Matilde si ritrova sola, ancora una volta, pugnalata proprio da quella metà che aveva scelto di defibrillare. Ha sbagliato per sentirsi amata e la figlia Emanuela, personaggio difficile da non detestare per come viene sagomato, non sa riservarle nessun grumo d’affetto, neanche un cencio di pietà.

Il contratto familiare non prevede misericordia. Quella madre è solo una fonte d’imbarazzo, il ricordo incarnato di una partenza in salita, per lei che ormai è approdata in Precollina, con un marito-trofeo e una fortezza imbottita di aspettative.

Non c’è aroma di speranza, non pulsa alcun sintomo di recupero umano. La paziente coesiste col suo malessere, incassa l’amarezza, il metallo del distacco. Vorrebbe comporre discorsi come intrecci di fiori, saper veicolare il denso vapore della sua notte, essere colta, essere intesa, almeno una volta, ma forse troppo le è stato sottratto. «Voleva usare le parole giuste per dire amore, età, passione, sesso, gusto, vita, possibilità, soldi, errore, perdita e inizio nella stessa, lunghissima frase, capace di mettere insieme una storia, la propria, e un punto di vista nuovo dal quale la figlia avrebbe cominciato a guardarla, se solo avesse smesso di osservarla in base ai propri bisogni».

Vorrebbe, ma nemmeno nell’oasi di porte e promesse posta in palio da un romanzo è possibile redimersi, o sentirsi inclusa. È molto più facile, molto più fluido vestire solo una porzione di sé, lasciarsi sfiorare per sommi capi e accettare che ci definiscano pochi contorni, quelli spessi e fibrosi che intercettiamo per primi negli altri. Caratteristiche salienti, perché a scendere un po’ si rischia l’apnea.

Viverci e rapportarci da isole nebbiose. Quello che ci fa comodo venga concesso. E Paola Cereda restituisce la nostra muscolare struttura da vaso in frantumi, l’approssimato livore con cui cataloghiamo cose e individui (anche noi stessi) scordandone molto più di un’intera metà, con una schiettezza di dialoghi che permea il quotidiano e non tradisce il bisogno di onestà.

Lingua precisa, immediata, efficace per inquadrare Torino e le sue contraddizioni. Gli spaccati socio-emotivi di creature che si accavallano e si scontrano, spesso malvolentieri.

Nel microcosmo di personaggi che orbitano intorno a Matilde, il più riuscito è quello di Carmen, badante incrociata sull’autobus e capace d’incastrarsi nella sua malinconia. Porta addosso una storia come tante, e quindi preziosa, emigrando dall’Ecuador per occuparsi di una famiglia mentre qualcun altro laggiù dovrà occuparsi della sua: «L’ultima volta che era stata a Quito, si era sentita straniera nella casa in costruzione che non raccontava di lei, dei suoi sacrifici, delle giornate intere spese a fare economia. Si era sentita estranea nel proprio letto, accanto al marito e davanti ai figli che chiamano madre la nonna e Carmen la madre».

Anche lei come Matilde è una stella desolata, una vita più che adulta con troppo peso sulla sua luce, ma che in fondo, come tutti noi, spera ancora ci sia un giorno di cielo per poter crescere.

 

(Paola Cereda, Quella metà di noi, Giulio Perrone editore, 2019, pp. 210, euro 15, articolo di Cristiana Saporito)
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LA CRITICA

Paola Cereda intaglia una trama attualissima e delicata, con al centro la figura di una donna provata da tanti tipi di indifferenza, ma ancora in grado di amare.

 

VOTO

7/10

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