Ipotesi di una biblioteca ungherese

Ovvero cosa si perde il lettore italiano

di / 10 ottobre 2019

Copertina di Peter Nádas

L’ungherese è una lingua agglutinante, del sottogruppo ugrico delle lingue ugro-finniche; lingua madre di circa tredici milioni e mezzo di persone fra Ungheria e paesi confinanti: si tratta della lingua non indoeuropea più parlata in Europa. È ricca, capace di esprimere anche le sfumature più sottili, con una produzione secolare di eccellente letteratura e poesia, sorprendentemente versatile e musicale. Possiamo parlare di letteratura ungherese già nel Duecento, e risale al 1367 la fondazione della prima università ungherese a Pécs.

La curiosa storia della fortuna della letteratura ungherese in Italia richiederebbe uno studio a parte, e poiché esistono scritti approfonditi di validi specialisti sul tema, desidero mettere in risalto solo un criterio determinante nella scelta degli editori italiani: la disponibilità del libro che si intende far tradurre in italiano in qualche lingua veicolare. In caso contrario l’editore, solitamente non in grado di leggere in ungherese e nemmeno coadiuvato da un esperto in lingua e letteratura ungherese in casa, si deve affidare completamente a chi il libro glielo ha suggerito, e al traduttore, figure che a volte coincidono. Una preziosa eccezione è rappresentata dalle Edizioni Anfora perché Mónika Szilágyi, la direttrice editoriale, è una italo-ungherese esperta di quella letteratura.

Negli altri casi una ulteriore limitazione è rappresentata anche dalla stessa lingua veicolare perché si tratta prevalentemente del tedesco, mentre le traduzioni in inglese, francese o spagnolo sono decisamente meno numerose. Questa e altre difficoltà di cui non parlo qui per non tediare il gentile lettore, fanno sì che nelle librerie italiane ci siano sempre pochi titoli ungheresi. Ed è un vero peccato, perché la narrativa, la saggistica e la poesia ungheresi si vantano di una vasta serie di opere che il lettore italiano saprebbe ben apprezzare. Questo scritto desidera presentare, senza pretesa di completezza e, al contrario, tralasciando sicuramente molti libri ugualmente se non addirittura più meritevoli, alcuni titoli che potrebbero o addirittura dovrebbero trovare posto sugli scaffali delle librerie italiane. Una scelta arbitraria, l’ipotesi di una piccola biblioteca di autori contemporanei. Non includo opere classiche per motivi di spazio, anche se ce ne sarebbero numerose belle e molto interessanti, mondi che troverebbero sicuramente una buona accoglienza.

Fortunatamente ci sono autori ungheresi contemporanei o del secondo Novecento già ampiamente tradotti in italiano, fra questi il premio Nobel Imre Kertész, Sándor Márai, Magda Szabó, Péter Esterházy, e qualcosa anche di László Krasznahorkai, molto apprezzato all’estero e insignito del Man Booker Prize. Péter Nádas, in odore di Nobel da anni, aveva avuto un breve periodo luminoso con ben cinque opere nelle librerie italiane, scomparse però per sfortunate vicende editoriali. Nádas aspetta di essere riscoperto, la sua straordinaria scrittura è un bene dell’umanità, e spero ardentemente che insieme a tante sue opere un giorno sarà disponibile anche in italiano il suo indiscusso capolavoro monumentale del 2005, Párhuzamos történetek (Storie parallele).

Altre autrici e altri autori vivi e fortunati in patria, tradotti anche in più lingue, hanno visto la luce con uno o due titoli in Italia, come per esempio Zsuzsa Rakovszky, Noémi Szécsi, Edina Szvoren, Miklós Vámos, László Darvasi, György Konrád, György Dragomán, György Spiró, Ádám Bodor, Róbert Hász, Imre Oravecz e Attila Bartis (i nomi sono rigorosamente in ordine sparso), ma altri loro titoli aspettano pazientemente la traduzione italiana. Esiste poi un nutrito gruppo di autori mai approdati in Italia, che con una opportuna promozione (che purtroppo manca spesso quando si tratta di libri ungheresi) potrebbe facilmente conquistare i lettori italiani.

Nessuno dei bei romanzi di Pál Závada ha trovato ancora la strada per l’Italia, eppure quest’autore piuttosto prolifico è una garanzia di temi impegnati, qualità letteraria e godibilità, e quindi di successo anche commerciale, in Ungheria. Il suo romanzo Hajó a ködben (Nave nella nebbia), che narra la storia in parte fedele in parte fittizia delle Industrie Manfréd Weisz, il più grande impero industriale ungherese prima della Seconda guerra mondiale, è uscito da poco, ed è già ai primi posti nelle classifiche, come d’altronde era accaduto anche con diversi suoi titoli precedenti. Un impero posseduto da una cinquantina di persone, per lo più ebrei convertiti al cattolicesimo, che nel 1944 fra accordi con gli occupanti nazisti tedeschi tentano di sopravvivere.

Copertina di La pallottola che uccide Puskin di Péterfy

Dopo Halál Budán (Morte a Buda), romanzo a forti tinte sulla storia di Michele d’Aste, il barone italiano morto durante l’assedio e la liberazione di Buda dai turchi nel 1686 all’età di trent’anni; dopo Kitömött barbár (Il barbaro impagliato), che vede protagonista Angelo Soliman, il primo Venerabile africano, Gergely Péterfy è di nuovo nelle classifiche magiare con il suo A golyó, ami megölte Puskint (La pallottola che uccise Puškin), la cronaca di un amore fuori dal comune. Anche Péterfy è un romanziere di grande talento, capace di creare un amalgama affascinante fra Storia e fantasia.

Ferenc Barnás non è particolarmente prolifico, passano anni fra una sua pubblicazione e l’altra. Il suo A kilencedik (Il nono), tradotto in inglese e tedesco, presta la voce a chi non ce l’ha, a chi vive in miseria. In questo caso in pieno socialismo, nel 1968. Un ritratto indimenticabile della povertà come condizione umana.

Prima di proseguire con la presentazione di altri titoli, vorrei fare un breve cenno alla ricchissima letteratura ungherese per l’infanzia. Una miniera inesauribile, che coltiva degnamente l’eredità dei Ragazzi di via Pál di Ferenc Molnár. Fra i tanti autori validi faccio solo due nomi, quelli di Judit Berg e di Dániel Varró, che da molti anni coltivano il genere con ottimi risultati, anche grazie alle illustrazioni, un campo in cui l’Ungheria è alla avanguardia.

Anche le novelle occupano uno spazio molto importante nella letteratura ungherese. Fra i tanti che coltivano questo genere una dei migliori è Krisztina Tóth, poetessa e autrice anche di libri per bambini. Da tempo fra i protagonisti dello scenario letterario nazionale, le sue raccolte sono sempre molto apprezzate dalla critica e dal pubblico. Quest’anno è uscito Fehér farkas (Lupo bianco), un volume di storie catartiche, istanti rubati alla quotidianità che riflettono sul presente politico e sociale.

Fin qui si è parlato di autori di prima fila con una ricca produzione e quotati anche al di fuori dei confini nazionali perché tradotti almeno in tedesco, qualcuno persino in più lingue. Tuttavia vale la pena dare un’occhiata anche all’esordiente Dénes Krusovszky, un caso letterario con il suo Akik már nem leszünk sosem (Quelli che non saremo mai più) con una trama che attraversa generazioni e confini. Un uomo muore in un incidente stradale ad Iowa City nel 1990. Dopo una lite un giovane riparte da Budapest per la sua città natale nel 2013. In una casa di cura nel 1986 un infermiere registra le confessioni di un malato. Nel 1956 una manifestazione a favore della rivoluzione in una città di provincia si trasforma all’improvviso in un pogrom. Nell’estate del 2013 una notte di nozze subisce una svolta inaspettata. Nel 2017 queste tessere compongono un mosaico inconsueto.

A proposito di esordienti: nel 2001 una piccola casa editrice specializzata in letteratura ebraica ungherese pubblica il primo romanzo di Álmatlanság (Insonnia) di Lea Polgár, in seguito tradotto in tedesco, che è una ricostruzione plastica, quasi cinematografica dell’assimilazione degli ebrei ungheresi fra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento attraverso una storia d’amore, offrendo una panoramica di quella società che pochi decenni più tardi in gran parte fece una tragica fine. Quegli ebrei assimilati formavano quasi interamente la borghesia e l’intellighenzia ungherese.

Copertina di Ripityom di Vaijda

In conclusione desidero segnalare qualche titolo sparso: non sono bestseller e gli autori non sono fra i più acclamati, ma la loro lettura non solo arricchisce e intrattiene, ma avvicina anche molto alla comprensione dell’Ungheria e della Mitteleuropa in determinanti periodi storici. Il primo è Ripityom di Pierre Vajda, la biografia molto ben raccontata di uno dei più grandi attori teatrali e cinematografici magiari, Pál Jávor, il Clarke Gable nostrano, e il sottofondo è la società e la storia dal primo Novecento fino agli anni Cinquanta. Un tipico destino magiaro, con il titolo onomatopeico che simboleggia il ballo estenuante fino allo svenimento, e anche fare qualcosa o qualcuno a pezzi. Balatoni nyaraló (Casa di villeggiatura al Balaton) di Rudolf Ungváry narra invece le vicende intorno a una casa di villeggiatura di borghesi cattolici in collina sopra il lago dall’Ottocento in poi, con figure fittizie e altre realmente esistite. Una docufiction ben riuscita, pronta anche per essere portata sugli schermi.

Csengőfrász (Shock da campanello) di Dániel Cserhalmi inquadra gli anni del terrore comunista, i primi anni Cinquanta, quando il suono del campanello di casa allarmava tutti, perché poteva essere la polizia politica, con conseguenze anche tragiche.

Amerigo Tot di Péter Nemes narra la vita avventurosa e in gran parte trascorsa in Italia, dello scultore ungherese Amerigo Tot, partigiano della Brigata Garibaldi, amico di Guttuso, Moravia, Morricone, uomo al centro della vita artistica di Roma con atelier in via Margutta, e anche attore cinematografico.

Budapesti Barokk (Barocco di Budapest) di Mihály Dés, prematuramente scomparso un paio d’anni fa, è un vertiginoso carnevale dolceamaro nella capitale magiara di fine Novecento.

Infine segnalo un libro esile nato negli anni Ottanta, ristampato di recente e tradotto in più lingue, dalla penna di un grande traduttore, redattore e lessicografo morto di recente.  A boldogtalan sorsú Rudolf trónörökös (Rodolfo, l’erede al trono dal destino infelice) di István Bart narra i fatti di Mayerling senza edulcorare nulla e nessuno, meno che mai i due tragici amanti, in modo convincente nei contenuti e nello stile.

Altri titoli e altri autori potrebbero ancora menzionati ma forse il lettore si è già convinto che la letteratura ungherese merita attenzione. Perché questa conclusione era lo scopo di questo scritto al contempo corto e lungo.

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