Qualcosa di coraggioso

“Gli occhi vuoti dei santi” di Giorgio Ghiotti

di / 2 dicembre 2019

copertina di Gli occhi vuoti dei santi di Giorgio Ghiotti

Con la nuova raccolta di racconti di Giorgio Ghiotti, giovane autore che frequenta con successo sia la poesia che la narrativa, ci immergiamo in una materia dalla forma estremamente controllata e dosata ma dal contenuto sensibile: un complesso nodo di reminiscenze, pulsioni, ricordi ancestrali e legami ambigui, anche quando sono – o dovrebbero essere – quelli fondamentali per la crescita dell’individuo, ovvero quelli familiari.

Nelle dodici brevi e conchiuse storie che si avvicendano in questo ultimo libro, dal titolo Gli occhi vuoti dei santi, in libreria per i tipi di Hacca (il terzo relativamente alla narrativa dopo la raccolta Dio giocava a pallone e il romanzo Rondini per formiche, entrambi per nottetempo), Ghiotti mette in scena personaggi spesso disposti a narrarsi in prima persona, che non hanno timore di rivelare i propri lati più intimi e nascosti, una vocazione distruttiva o autodistruttiva, il desiderio inconfessato per qualcuno, sovente dello stesso sesso, o il sentimento di invidia e addirittura odio verso un fratello, una sorella, che assume lo strano ruolo ambivalente di persona molto vicina, dello stesso sangue, e indesiderato collettore delle attenzioni degli adulti, come si legge per esempio nei racconti “La casa di via Bolivares”, tutto giocato sul rapporto tra due fratellini complementari e antitetici, e “Santi giorni”, in cui si ritrovano le tematiche dell’omosessualità, del catechismo, della religione, della letteratura come mezzo per esprimere il desiderio.

Vi è nella scrittura di Ghiotti una naturale inclinazione per il dato biografico, regalato e sventagliato davanti agli occhi del lettore con un florilegio asciutto e dolente, privo di indulgenza, alle volte impietoso, per esempio in passaggi come: «Quello era veramente mio padre, una creatura stanca e muta in piedi sotto la porta, la vita breve, il sonno pesante, un collezionista di illusioni e speranze fallite, un nulla» (“Sacra famiglia in fiamme”).

Altre volte un giro di frase, un’accoppiata di parole, rievocano ricordi e momenti teneri, puliti, facilmente riconoscibili e ricollocabili, da parte di un lettore universale, nel grande vaso di pandora dell’infanzia, sul fondo del quale rimane solo quella perfetta briciola di felicità: «Allora eccomi con le gambe strette alla pancia, piccolissimo, fare corpo col suo che mi abbraccia scongiurando la vecia, poi senza preavviso prende a farmi il solletico, sempre più forte, da lacrime agli occhi, e solo la voce di mia madre che ci chiama alla cena ci rende la tregua, esausti e felici, fuori dal gioco della vecia per sempre» (“Che cosa sono i padri”); oppure ancora: «Si mette a quattro zampe per farsi perdonare e mi carica sulla schiena, fa il giro di tutta la casa. In quel momento sento di volergli bene davvero, mi sento invincibile. Sono in seconda elementare e la mattina dopo la maestra ci mette davanti un foglio con su scritto Disegna tuo padre; io disegno un cavallo bianco senza criniera in un prato pieno di fiori» (dal racconto che apre la raccolta, “Mio padre”).

Come si può notare da questi stralci la figura paterna è ricorrente, e a essa ci si riferisce come a qualcosa di inevitabile di cui, purtroppo, si conosce ogni miseria, oppure al contrario della quale non si giungerà mai a comprendere il senso, come «un pigiama da tirarne le maniche per metterlo a dritto».

Ma anche alle madri, e al rapporto madre-figlia, l’autore riserva strali importanti, nuovamente ambivalenti, descrivendo, e sempre con l’ausilio di nomi stranieri (la coppia Fleur-Christine in “È permesso” e Grace-Myra in “Mattatoio”), dinamiche miste di affetto e distrazione, vicinanza e fastidio, quando non proprio insofferenza, incomunicabilità: «Tra Grace e sua figlia si erano accumulati negli anni molto affetto, centinaia di sorrisi e un buco nero di incomprensioni».

C’è in questi racconti una sorta di fascinazione e antagonismo nei confronti della figura materna, soprattutto se indipendente o colta, ma anche in questo caso le venature di affetto, quasi indulgenza, ammirazione, e distruttività sono così vicine da formare un miscuglio in cui è facile perdersi, anche quando l’esito è fatale, come per la madre del racconto “Elena Gigli”. La donna madre è un’entità misterica e nello stesso tempo tangibile, cangiante attraverso le età e le situazioni, e verso la quale il figlio prova un sentimento di sudditanza, che poi in qualche modo rompe.
«Fu allora che la persi; non la vidi più, perché le madri nei parei sono tutte uguali e tornano bambine anche loro, e attraversare il mercato del lunedì con tutta quella gente sudata in bicicletta e cappelli di paglia e creme abbronzanti è una guerra che non possiamo affrontare di prima mattina con uno yogurt nello stomaco e il sonno ancora dentro le scarpette».

Oltre all’amore omoerotico, all’indagine sui rapporti familiari e a uno scavo della psicologia infantile che porta sempre alla luce qualcosa di non trasparente, in questa raccolta emerge anche un cantico potente innalzato alla giovinezza, a quella fase della vita in cui si fanno cose sconsiderate con l’eroismo dell’incoscienza. Allora un’amica speciale con cui ammazzarsi di videocassette d’estate – e imparare a memoria tutto Almodóvar – diventa il simbolo di un periodo che non tornerà mai più, così come la compagna di università con cui dividere sigarette ed esami di letteratura sudamericana, o quel drappello di scriteriati adolescenti della periferia di Roma che il narratore fa a tempo a sospirare come un mondo perduto, rendendosi conto che: «Non ci saranno più iniziazioni e corse con i motorini che chi vomita perde, né vedette dall’alto come pirati in cima all’albero maestro. Noi siamo pirati di una ciurma scomparsa, di una nave fantasma. Mastichiamo bastoncini di liquirizia amara, un sapore che mette inquietudine e ci fa vedere già grandi, e crescere fa paura se cresceremo lontani in sterminate metropoli, in camere d’albergo, nessun bar dove sentirci invincibili nessun corpo da spiare sotto la luna, il corpo di Lorenzo che è un corpo di capitano e strappa bestemmie e preghiere».

Risolvendo così anche il rapporto con la spiritualità, ovvero con un intreccio di bestemmie e preghiere, diciamo che Gli occhi vuoti dei santi è una piccola bussola letteraria attraverso cui mappare le preferenze dell’autore: si va da Michele Mari, ai sudamericani, alla grande Ernaux sino a una onnipresente, cara Ginzburg.

E la scrittura, tanto corteggiata, non è per questo meno dolorosa: «Mi ha chiesto “Come va la scrittura?”, e io sono scoppiato a piangere».

Però, nel caso di Ghiotti, è proprio la scrittura a dire qualcosa di nuovo, o, comunque, di coraggioso.

 

(Giorgio Ghiotti, Gli occhi vuoti dei santi, Hacca, 2019, pp. 192, euro 15, articolo di Teodora Dominici)
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