Zalone: Tolo (tolo) contro tutti
Il ritorno di Luca Medici
di Emanuele Pon / 10 gennaio 2020
Checco Zalone ha abituato pubblico e critica italiani a film costruiti a tavolino, nel senso più positivo del termine, e questa volta non è da meno. C’è un obiettivo, c’è un messaggio: c’è un trailer chiarissimo. Talmente chiaro, però, che, ultimata la visione di Tolo tolo, si ha la netta sensazione di essere stati trollati, che quel trailer fosse un fake all’epoca dei fake.
Così arriva “Immigrato”, canzone estratta dalla trama del film, che con la trama del film c’entra poco o niente.
Quando ascolta “Immigrato”, l’elettore di destra è tronfio, sicuro di trovare in Zalone una spalla comica che comprende i suoi problemi. Andrà al cinema sperando in un rituale di aggregazione, nel corso del quale ci si ritroverà a ballare contro gli Africani che prosciugano il fatturato, con Checco a fare da direttore d’orchestra dal balcone.
Quando ascolta “Immigrato”, l’elettore di sinistra è investito da un miscuglio di emozioni: partecipa alle risate – giacché l’immigrato che chiede salmodiando «due euro per panino» è realtà che riguarda tutti, un nervo sociale scoperto –, per poi provare vergogna per essersi fatto contagiare da un simile, scimmiesco divertimento; subentra l’imbarazzo, a cui segue un’ostentazione di distanza dal fenomeno, in nome di una indignazione civica e di una (presunta) superiorità culturale da manuale.
Già così, Zalone sa di aver raggiunto il suo scopo: coinvolgere il pubblico più vasto possibile, dando ad ognuno qualcosa, come ha sempre fatto.
Il primo elemento di autentica novità del film è proprio il rovesciamento della linea tracciata con il fake-trailer.
In principio ci si ritrova in atmosfere che conosciamo proprio attraversoi film dell’autore, su tutti Cado dalle nubi: un Mezzogiorno macchiettistico, all’interno del quale si muove il protagonista, preda di un sentimento di amore-odio per la sua terra, troppo stretta per i suoi sogni. Tuttavia, si prosegue subito ripartendo dal finale di Quo Vado: è dell’Italia tutta che bisogna diffidare e dalla quale bisogna partire. E allora, vittima di italianissimi guai con la Guardia di Finanza, Checco scappa e scompare.
Lo ritroviamo in Africa, e già si percepiscono i primi irrigidimenti in sala. Dove è finita la Milano, non esplicita, ma pure chiarissima ambientazione di “Immigrato”? Dov’è quel personaggio in cui tutti, con orgoglio o con imbarazzo, ci siamo specchiati, quello che si inviperisce quando il nemico africano minaccia di mettere le mani sulla moglie, la “proprietà” più preziosa?
Tolo tolo è proprio la storia progressiva della sua scomparsa. Si tratta di una storia di ri-formazione: quella di Checco che, attraverso stilemi che continua a padroneggiare, decostruisce il suo personaggio, costringendolo a voltare pagina.
La critica più diffusa in questi giorni è che il film «non fa ridere», ma in realtà Tolo tolo non fa solo ridere: la risata, dispositivo tendenzialmente piatto, si è fatta tridimensionale, si è complicata a contatto con una realtà plurivoca ed ineludibile – quella del tema trattato – e ha mutato se stessa.
In questo modo, anche i modelli di Zalone crescono in numero. Alla tradizione comica nazional-popolare italiana – una linea che inizia con Celentano, si dipana tra il Tragico Fantozzi e le caricature di Verdone, e giunge sino a Boldi e De Sica – si aggiungono altre coordinate: si avverte la presenza della commedia all’italiana – Risi su tutti –, e ci si imbatte in una serie di omaggi al neorealismo; serve un ragazzo disperato, ma pieno di sogni, per ricordarci l’importanza di film come Roma città aperta o Mamma Roma, sembra dirci Zalone attraverso uno dei personaggi del film.
A essere cresciuto in particolar modo, dunque, è l’approccio che utilizza per decifrare la realtà che lo circonda. Tenacemente, però, il mutamento di paradigma non cede mai all’indignazione, nonostante la tematica e i tempi la suggeriscano; anzi, mantiene il puntello della risata, che si trasforma dall’interno, senza snaturarsi o scomparire. Il riso cresce, incontrando l’erma bifronte di cui parlava Pirandello, nella quale una faccia ride del pianto dell’altra: Zalone è passato dalla comicità all’umorismo. Ciò genera la reazione più in voga: non si ride allo stesso modo, e dunque, per direttissima, non si ride affatto.
Tale transizione è costruita sull’alternanza virtuosa tra linguaggio comico e linguaggio ironico: questo perché Zalone sa di aver unito le due anime politiche italiane in una sola audience, la sua.
Il trattamento differente che viene riservato alle due opposte fazioni di pubblico, già evidente dal fake-trailer, può essere percepito come elemento di asimmetria comunicativa: la comicità che tocca la destra italiana contemporanea è tendenzialmente più sottile che manifesta, mentre pare che accada il contrario per quella rivolta a sinistra.
È vero: battute come «che bello, anche qua c’è il maschilismo», o l’eccezionale cameo di Nichi Vendola nel ruolo di se stesso, mantengono il rischio di carezzare un certo tipo di audience, senza riuscire a farla sentire realmente derisa – perché troppo impegnata ad immedesimarsi nel «solito Checco» – come invece accade al pubblico di sinistra, proprio nella stessa scena di Vendola, o quando si imbatte nella figura del reporter francese radical-chic.
D’altro canto, appare evidente come questa asimmetria comunicativa sia ricercatissima. Zalone ritiene che un determinato pubblico, con un certo impianto di valori – quelli “di sinistra” – vada deriso proprio andando a pungere quegli aspetti di cui spesso fa inutile mostra, attraverso scene e situazioni che sono comiche: come nel caso della superiorità culturale, personificata dalla performance di Vendola, o della falsa genuinità esemplificata dal reporter.
Il j’accuse è chiaro, e arriva con le risate, più che tramite l’appello morettiano a «dire qualcosa di sinistra»: la sinistra di oggi, messa di fronte a sé stessa, fa ridere. Dall’altra parte, nei confronti dell’ala destra, sovranista del pubblico c’è, in effetti, un atteggiamento meno ridanciano, ma non per questo meno incisivo.
Il procedimento in Tolo tolo è meno comico ma più ironico, e quindi tendenzialmente più sottile, ma convive con un’emersione netta e continua della prospettiva fascista, secondo un disegno chiarissimo dell’autore. Lo stesso uso del termine fascismo, in un’epoca di rifiuto dei paragoni col passato, è fondamentale.
In quest’ottica, il fascismo non è presentato come una cosa che ci si sforza di ottenere e di cui dunque poi si vorrà fare sfoggio come, appunto, la cultura; è derubricato, piuttosto, a un gene malato ma endogeno ,a quella cosa che «è in tutti noi, e quando c’è troppo sole e siamo stressati viene fuori», come fosse attacco esantematico da curare con pomata apposita. È un male che coviamo tutti come l’influenza: più una cosa fastidiosa che una cosa su cui ridere.
Dunque, è presente sì una demistificazione dell’ideologia della destra italiana, ma anche una denuncia del fatto che quella realtà è immutata, e ciò che è difficile è andarle contro, perché per molti è andare contro natura.
Con Tolo tolo Zalone è cresciuto, reinventando se stesso, insegnandoci a ridere davvero e in modo nuovo, e lo ha fatto in modo politico, dando a ciascuno il suo: ha dato imbarazzo all’uomo di sinistra, che da questo film dovrebbe trarre il coraggio per ripensarsi, e ha tolto un potenziale punto d’appoggio all’uomo di destra, lasciandolo da solo col suo eczema.
Non solo di ridere: di questo c’era bisogno.
(Tolo tolo, di Checo Zalone, 2020, commedia 90’)
LA CRITICA
Zalone colpisce nel segno, con un film che è perfettamente ascrivibile al suo modo di fare cinema, ma che, nello stesso tempo, giunge inaspettato. Tolo tolo è la storia di una gigantesca, riuscitissima presa in giro nei confronti di tutti noi.
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