La fretta lenta dei Tame Impala

Pregi e difetti dei "The Slow Rush"

di / 26 febbraio 2020

Il titolo dell’ultimo disco dei Tame Impala, The Slow Rush, suona come un ossimoro: “la fretta lenta”, o qualcosa del genere.
È interessante partire proprio da qui: l’unione di svariati opposti sembra essere, infatti, proprio ciò che contraddistingue questo gruppo di canzoni; ma forse, a ben vedere, occorre fare un passo indietro, per scoprire che questa mescolanza di stili e di influenze non è altro che il marchio di fabbrica dell’intera carriera dei Tame Impala.

Carriera in costante ascesa, tutta giocata intorno alla figura del guru musicale Kevin Parker, che arrangia, suona e produce ogni album.
Sin dagli inizi, l’australiano ha oscillato tra velleità psichedeliche – le cavalcate ed i trip del primo EP, Tame Impala, e dei primi due LP, Innerspeaker (2010) e Lonerism (2012) sono esemplari da questo punto di vista – e concessioni ad un’ottica decisamente più pop – di cui sono prova, invece, le collaborazioni relativamente recenti con star della musica mondiale, da Kanye West a Rihanna a Lady Gaga.

Dopo la consacrazione, avvenuta cinque anni fa con Currents, in The Slow Rush Parker sembra voler raccogliere in un’unica sede tutto ciò che ha seminato: siamo di fronte al disco senz’altro più ambizioso, finora, dei Tame Impala, e forse questo è proprio il suo limite più grande.
Kevin Parker è un geniale tessitore di suoni ed arrangiamenti: il suo modo di approcciarsi all’architettura e alla produzione di un pezzo è ormai diventato un marchio, non soltanto una mera cifra stilistica ma piuttosto un vero e proprio “effetto Parker”, “tocco Parker”, che lo ha portato ad accedere alle alte sfere della musica mondiale.

Ebbene, si può dire che questo “tocco Parker” tocchi il suo apice proprio con The Slow Rush: si tratta di una manciata di pezzi estremamente eterogenei, forse come mai prima d’ora in un disco dei Tame Impala, ma al contempo uniformati dalla produzione, che crea una sorta di liquido amniotico sonoro atto a tenerli tutti insieme, al caldo, nello stesso alveo musicale.

Da tutto ciò deriva una medaglia con una faccia perfetta, ma l’altra difettosa: esattamente questo è il modo in cui suona The Slow Rush.
Consideriamo l’eterogeneità dei brani, prima di tutto: si passa dalla psichedelia pura in apertura e chiusura – con le cavalcate a tratti eccessive e ridondanti di “One More Year” e “One More Hour” – alla acid house di “Glimmer“, dalla ballata post-apocalittica “Posthumous Forgiveness” ai Daft Punk che riecheggiano in “Is it true” (ma non solo), per arrivare all’R&B di “Breathe Deeper“.

Perché questo miscuglio di generi? Qual è il vero scopo?

È sicuramente presente la volontà da parte di Parker di prendere per mano l’ascoltatore e condurlo in un viaggio scandito secondo tappe che altro non sono se non i punti di riferimento, le influenze maggiori dei Tame Impala; tuttavia, non si può fare a meno di percepire, a tratti, un senso di enumerazione fine a sé stessa, uno sfoggio di sapienza tecnica. Come a dire: Parker ormai ha dimostrato di padroneggiare quasi qualsiasi genere musicale, ma qual è il suo genere musicale?

In una situazione di ambiguità analoga ci si trova se si prendono in considerazione, invece, i punti di contatto tra i brani, piuttosto che le loro specificità individuali.
Vale la pena di metterlo in chiaro: The Slow Rush, proprio a causa dell’eterogeneità di cui si è detto, è un disco inequivocabilmente meno compatto rispetto al suo predecessore Currents – album con cui, probabilmente, i Tame Impala hanno toccato il loro apice finora –; è come se Parker ci volesse portare, un po’ alla volta, verso tutte le direzioni che ha in testa, che sono davvero tantissime.

Pur nel solco di questa poliedricità, The Slow Rush è tenuto insieme da quello che, almeno nelle intenzioni di Parker, dovrebbe essere un collante solido e sicuro: si tratta di quella patina di pop elettronico con cui l’australiano sta sempre più contaminando la sua visione della psichedelia musicale. Le melodie accattivanti ci sono, i ritornelli anche (ascoltare “Borderline” o la già citata “Posthumous Forgiveness” per credere): il problema generale è che la musica dei Tame Impala si fonda sempre di più sull’ambizione, probabilmente eccessiva, di far coesistere il concetto di movimento musicale progressivo, psichedelico, finanche onirico e ipnotico, con una forma-canzone più tipica del pop-rock radiofonico.

Si può fare? Certo, e The Slow Rush ne è la dimostrazione: il risultato sarà una miscela i cui ingredienti non si sono perfettamente emulsionati tra loro – non basta il falsetto di Parker, a volte davvero estenuante, a tenerli insieme.
The Slow Rush si fa ascoltare, si fa apprezzare nelle sue complesse e magniloquenti architetture, nelle sue estrosità strumentali, nei suoi cambi improvvisi e nella sua eterogeneità; lascia più a desiderare quando si tratta, quella eterogeneità, di cucirla insieme col pop: i ritornelli provano disperatamente a rimanere in testa, ma non ci riescono del tutto.

Emergono chiaramente, scorporati l’uno dall’altro, i punti di riferimento di Parker nell’operazione: dal trip-hop di Tricky, ma soprattutto di Massive Attack e Portishead, all’art-pop elettronico e mescolato dei TV On The Radio. Ma allora, viene da chiedersi, non si fa prima ad ascoltare un qualsiasi disco di uno di questi gruppi?

I Tame Impala hanno osato, e per questo vanno premiati: hanno pensato di poter aggiungere un ingrediente in più, quel quid in grado di tenere insieme tutto.
Ci sono riusciti solo parzialmente: forse perché sono stati troppo lenti, o forse perché hanno avuto troppa fretta. Il risultato è una fretta lenta che convince a metà.

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LA CRITICA

The Slow Rush è ambizioso e magniloquente, ricco e barocco nell’architettura, ma forse un po’ privo di anima. I Tame Impala possono ripartire da questa idea di musica, ma devono osare ancora di più, altrimenti resta solo falsetto.

VOTO

6,5/10

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