Decifrare il mondo: la ricerca delle «grandi leggi» in Balzac e Proust

“L’ombra di Vautrin” di Mariolina Bertini

di / 12 marzo 2020

Copertina di L'ombra di Vautrin di Bertini

«Paradigma indiziario», «linguaggio delle anacronie», «motivo stendhaliano dell’altitudine», «specchio impuro», «desiderio mimetico»: questi sono solo alcuni dei numerosi concetti-chiave che collegano il mondo di Balzac a quello di Proust, attraverso il cui affascinante labirinto ci guida Mariolina Bertini nel suo ultimo saggio L’ombra di Vautrin (Carocci, 2019).

Quello che più cattura di questo studio serrato e dettagliatissimo è quella verità profonda – sottratta a qualsiasi approccio letterario precostituito ideologicamente – comune sia al genio di Balzac, grande decifratore della storia, in possesso di quelle «misteriose leggi della carne e del sentimento» che puntano al cuore delle cose, che all’eccezionale capacità intuitiva di Proust di riconoscere nell’opera del grande maestro questo codice di lettura del reale, all’epoca ancora invisibile agli occhi della critica letteraria, quanto di servirsene egli stesso per costruire la propria.

Difatti, a parte Ernst Robert Curtius o Robert de Montesquiou, per i primi critici di Proust l’influenza di Balzac – sebbene nella Recherche l’autore dell’immensa Comédie humaine vi fosse evocato capillarmente – si restringeva per lo più a un acuto spirito d’osservazione, a una singolare capacità di donare spessore ai personaggi quanto sottigliezza e precisione agli ambienti mondani della Parigi elegante, con i suoi raffinati salotti, le sue coquette e i suoi dandy, le fastose toilette delle signore e i complicati intrecci amorosi. È solo a partire dagli anni Cinquanta del XX secolo che la critica ha messo via via in luce come la figura di Balzac sia invece presenza, ineludibile e dominante, che incide sulla poetica di Proust in modo ben più significativo, eredità preziosa non di superficie ma di profonda e disturbante intensità, vera e propria verità decifratrice dell’esistenza.

Perché se il grande scrittore – di cui Paul Bourget aveva giustamente detto fosse «il padre di noi tutti» – era ancora assente dalla prospettiva di Proust adolescente, studente al liceo Condorcet, già nel romanzo giovanile Jean Santeuil, a cui lavora dal 1895 al 1900, comincia a farsi strada un Balzac meno convenzionalmente legato al prototipo del romanziere ottocentesco, tutto invenzioni melodrammatiche, avventure e colpi di scena, al quale i contemporanei usavano contrapporre il più moderno, lineare e omogeneo modello narrativo di Flaubert.

È qui che, dietro l’eclettica natura dei dettagli di costume e dell’eloquenza colorita di testimone di fenomeni sociali, Proust pian piano inizia a scorgere il profilo di un Balzac inedito. Per il futuro autore della Recherche, infatti, quella scrittura densa di subordinate e incisi, verbose digressioni filosofico-politiche, pesantezza didattica e intrecci da feuilleton poliziesco, rimproverata come inverosimile, melodrammatica e immorale dalla critica coeva, svela l’accesso al mistero di realtà nascoste – precluse ai benpensanti conformisti – dalle quali emana una forza irresistibile, il potere d’attrazione di una verità capace di riscattarne in pieno le accuse di volgarità e materialismo.

I segni del suo progressivo interesse subiscono un’accelerata con gli spassosi pastiche – perfetti «falsi» dello stile di Balzac che, senza voler essere affatto una caricaturale derisione, valgono quali esercizi di stile – pubblicati sul «Figaro» nel 1903 e 1908. Qui Proust sembra sperimentare, parodiandone gli elaborati periodi sinuosi, quello che Spitzer definirà lo sviluppo delle frasi «a detonazione», «a strati», «ad arco», del complicato edificio della Recherche e dove, quale modello e insieme contrapposizione all’impetuosa e dominante voce balzachiana, fedele al culto della volontà, già si intravede la fragilità di quella esitante e complice del Narratore proustiano, che più tardi emergerà dalle misteriose nebbie del sonno e dell’inconscio.

Ulteriore, fondamentale tappa ne sarà l’incompiuto Contre Sainte-Beuve – iniziato nel 1908 ma pubblicato postumo come saggio solo nel 1954 – nel quale Proust stabilirà in modo più puntuale come la verità documentaria, oggettiva e scientifica, tipica dell’approccio ideologico e prevenuto della critica del tempo, sia incapace di arrivare alla verità secondo Balzac, esoterica e sotterranea, quale personificata da personaggi come Vautrin – la cui ambigua grandezza dalle molte identità e dai molti segreti Proust incarnerà nel barone di Charlus – la sola in grado di accedere alle oscure leggi pulsionali che determinano «tanto i destini individuali quanto i grandi drammi della Storia».

Ma sarà infine nella Recherche che l’enigmatica ombra di Vautrin, così come l’intero registro dei «segreti» di Balzac, si espande, dilatata dal discorso interiore del Narratore, invadendone ogni pagina con il suo potere di rivelare le leggi invisibili del mondo reale; quel quid nascosto al centro delle cose, inquietante, sconosciuto eppure familiare.

(Mariolina Bertini, L’ombra di Vautrin, Carocci editore, 2019, pp. 172, € 19,00 | Recensione di Claudia Cautillo)
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