10 anni di High Violet

La seconda, decisiva, svolta dei The National

di / 13 maggio 2020

Nel 2008 i National erano in tour con i R.E.M., aprivano i loro concerti portando in giro anche il materiale dell’ultimo Boxer. A un certo punto, Michael Stipe pare avergli detto: perché non scrivete canzoni pop? La domanda del leader dei R.E.M. deve aver iniziato a girare nelle teste di Matt Berninger e compagni.

Strana domanda quella di Michael Stipe. Cosa intendeva con canzoni pop? Non erano canzoni pop neanche quelle di Boxer? Possiamo capire Alligator, ma Boxer? Probabilmente no, almeno per uno che ha costellato la propria carriera di brani squisitamente pop che sono rimasti nella coscienza collettiva. O meglio ancora, deve aver capito che i National erano un gruppo dalle potenzialità enormi, che poteva conquistare ancora maggior spazio, espandendosi senza andare a perdere la propria essenza. Possiamo immaginare, dunque, che no, la claustrofobia intrinseca di Boxer non era l’unica arma di cui disponevano i  National e che Michael Stipe avesse intuito che il gruppo di Cincinnati avrebbe potuto fare le cose molto più in grande.

Il suggerimento di Michael Stipe deve aver avuto un discreto peso sullo sviluppo dei National e su quelli che poi sarebbero diventati i nuovi pilastri. Matt Berninger lo ha detto in una recente intervista per NME: all’epoca, volevo che i National diventassero un grande gruppo, volevo raggiungere tutti. Matt Berninger voleva un pubblico sterminato. Voleva le arene, voleva essere l’headliner dei grandi festival. Perché fino a qual momento i National erano sì un gruppo dal talento cristallino, ma relegato in una posizione di nicchia.

Nonostante Boxer fosse un primo step in avanti per la loro carriera, dove a livello di qualità assoluta di scrittura si raggiunge probabilmente l’apice, è con High Violet che i National riescono a mutare pelle e a farsi conoscere nel modo in cui oggi li percepiamo. Senza vendersi, mantenendo comunque quel tocco autoriale e quell’imprinting post punk che li ha sempre contraddistinti. La cifra stilistica dei National di oggi ha origine dal passaggio Boxer-High Violet. In quel periodo i National vivevano un impeto artistico eccezionale (non senza dei problemi, come i litigi furiosi che per poco non furono motivo dello scioglimento) e nel 2010 capirono come declinarlo in modo pop.

I National si aprono completamente al mondo e raggiungono quel complicatissimo equilibrio tra ricercatezza e mainstream. Il suono si fa più ampio, muscolare. Le chitarre sono ancora più tarate, la batteria è una martello educato e leggerissimo, mentre i ritornelli sono più immediati ma non per questo ridondanti. Con High Violet i National smettono di essere una cosa bellissima per pochi e iniziano a essere una cosa bellissima per tanti.

Per rendere chiara la cifra a cui si tendeva, andiamo a vedere un altro aspetto di questo 2010. In quell’anno gli Arcade Fire escono con un lavoro fondamentale: The Suburbs. La band canadese domina senza ombra di dubbi a livello planetario. È il gruppo di punta, il massimo. Un gruppo che, ricordiamolo, solo tre anni dopo sarebbe poi uscito con The Reflektor. Nel 2010 l’indie rock degli Strokes e degli Artic Monkeys perdeva tutta la sua efficacia e gli Arcade Fire dominavano. The Suburbs confermava la spinta elegante e popolare che avevano i suoi predecessori, Funeral e Neon Bible.

Ai National mancava un brano che potesse aiutarli a fare quel balzo in là, su cui far ruotare una nuova prospettiva. In Suburbs c’era – esempio più immediato – “Ready to Start”. Qui gli Arcade Fire davano sfoggio di tutte le loro qualità e palesavano ancora una volta il motivo per cui sono riusciti a diventare gli Arcade Fire, senza rimanere un fenomeno indie isolato e di nicchia. È un brano che riesce a legare tra loro gli ascoltatori, a trascinarli e a renderli parte di qualcosa che va altre il semplice fatto di ascoltare gli Arcade Fire.  Una ritmica secca e assillante che sa quando fermarsi e ripartire, dove le chitarre si mescolano all’interno di una melodia vocale che non sbrodola mai nel banale e che si apre – qui l’intuizione fondamentale che rende i canadesi gli Arcade Fire – in un ritornello che di base non arriva mai: un esempio di canzone da stadio destrutturata.

Ed ecco che in High Violet abbiamo due brani che possono stare al passo in questa competizione: “Terrible Love” e, soprattutto, “Bloodbuzz Ohio“. Si potrebbe contestare che anche Boxer avesse dei pezzi di questo tipo, uno su tutti “Fake Empire”. Ma la traccia d’apertura, in tutto il suo essere sofisticata, pare nascondersi e non volersi sbottonare più di tanto, contemplandosi sotto l’ombra della propria bellezza . “Bloodbuzz Ohio”, invece, riesce a viaggiare su più livelli –  cosa che High Violet fa per intero -, senza paura di mostrarsi nel suo essere accessibile. “Bloodbuzz Ohio” è il pezzo di cui i National avevano bisogno: coadiuvato da un video in bianco e nero con Matt Berninger assoluto protagonista, emerge in pieno quello che i National saranno da ora in poi: creatori di brani con tutti i crismi del pop e infarciti di sbuffate rock, dove l’obiettivo principale rimane sempre quello di raggiungere il maggior numero possibile di ascoltatori.

Dal 2010 i National, dunque, con High Violet riescono a raggiungere quei livelli, mantenendo le proprie peculiarità. E questo stigma è rimasto lì da allora. Il suo successore, Trouble Will Find Me (“Sea of Love”, altro brano che incarna perfettamente il nuovo-oramai vecchio corso dei National), continua sulla stessa scia, portando in avanti il discorso di High Violet, mentre con Sleep Well Beast abbiamo la possibilità di esplorare territori più scuri, pieni di nuove contaminazioni elettroniche.

Partendo dalla prima rivoluzione Boxer, passando per la seconda e decisiva di High Violet, i  National mantengono per più di dieci anni un livello di qualità e intensità altissimi.  Non inseriamo l’ultimissimo  I Am Easy To Find, dove Matt Berninger e soci non riescono a portare avanti un’idea del tutto convincente.

High Violet rimane ancora oggi, dieci anni dopo, un miracolo di balistica. I National sono riusciti a trasformare sé stessi in qualcos’altro, senza dimenticarsi chi fossero. I suggerimenti di Michael Stipe hanno contribuito alla trasformazione di un gruppo enorme, che sul perno di un intrinseco disincanto si è aperto a mondi fino a quel momento sconosciuti.

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