Non è solo questione di titoli

Su “La ragazza della palude” di Delia Owens

di / 12 ottobre 2020

Copertina di La ragazza della palude di Owens

Da qualche anno in libreria è tempo di ragazze. La letteratura ha plasmato esempi orgogliosi, stabili abitanti di scaffale come La Ragazza di Marsiglia di Maria Attanasio, La ragazza di carta di Guillame Musso, fino alla pluridecorata Ragazza di Bube. 

Ma nell’ultima decade editoriale, oltre a queste creature stanziali, di ragazze ne sono grandinate a centinaia. La prima a catalizzare curiosità e vendite fu La ragazza del treno di Paula Hawkins, thriller intagliato a dovere proprio per essere un best seller; il seguito è stato quasi uno sciame cosmico, più o meno di successo. Che sia fatta di neve, di polvere, di stelle o d’inchiostro, che sbuchi da Varsavia, da Berlino o da un plotone di lupi, il corpo di una giovane donna sembra condensare in sé tutto il gorgo scoppiante di primavera che ci si possa augurare da una storia. Spesso non baciata da ottimi finali.

Questa volta è l’ecosistema che fa la differenza. E Delia Owens, naturalista al suo esordio, ha ritagliato un perimetro ideale per La ragazza della palude (Solferino, 2019, traduzione di Lucia Fochi). La vicenda ci sprofonda negli anni Cinquanta, in un istmo d’America misero e infangato, una terra degli ultimi, semisolida, tremula, oscillante di passi disperati. Delle vite diseredate e sghembe che la scelgono, come rifugio o cattedrale della resa.

«Le rare proprietà non erano mai state regolarmente accatastate, ma solo segnate da confini naturali – il corso di un torrente qui, una quercia morta là – da fuorilegge. Uno non si costruisce un capanno di palme nane in un acquitrino a meno che non stia fuggendo da qualcuno o sia arrivato alla fine della sua strada».

In questo habitat per soli esclusi, nasce Kya, bimba sbocciata dentro una capanna affollata di altri figli. Sua madre la incanta con l’afrore di frittelle, che annebbiano e graziano tutto il marciume. Ma un giorno decide di andar via. Decide di sentirsi troppo livida per restare in quella gabbia. Indossa i suoi tacchi, le sue spalle migliori e non si volta più.

Kya si aspetta che torni. Kya aspetta, ancorata alla veranda, ma sua madre è già profumo. La cordata di fratelli si scioglie in pochi caldi. La abbandonano tutti. Tutti vogliono ritrarsi, dalle botte, dalla fame, dalle croste di sole scambiate per regali.

Kye rimane sola, con l’artefice di tutte le fughe, con un padre stanco e ubriaco, che ammacca i suoi giorni di bische e bicchieri. E ben presto impara la lingua di questa solitudine, impara a contornarsi dei soli elementi che la lasciano indenne, che sanno parlare al suo cuore incustodito.

La sua famiglia sono conchiglie, gabbiani, correnti, lische e cortecce. Vive di gusci raccolti e nel suo nessuno si affaccia. Fino a quando non si avventura al largo, fino a quando la barca sfugge al controllo e incappa in un incontro che saprà governare ancora meno.
Quello con Tate, figlio di un pescatore che saprà scucirle il pantano di dosso e leggerla al vento come se fosse preghiera. Ma questo non basta. Come la storia di molti uomini insegna, Tate ha paura e la lascia andare.

Per la comunità benpensante di tutto il villaggio, avvinghiata alla speranza di perpetuarsi identica, Kya resta un mistero e quindi un pericolo. Una figura selvatica e ineffabile da tenere alle corde, da non far avvicinare. Succede che sia bella, succede che calamiti gli occhi e le attenzioni di Chase, promessa del football e orgoglio cittadino. Il classico maschio geneticamente immolato al successo.

E succede che quando Chase frana di notte da una torre antincendio, è quasi un istinto additarla, proclamarla colpevole ancor prima di un processo. Ma il giallo intorno alla sua morte ha solo il ruolo di irrobustire la trama e la figura di Kya, che sposando la palude ne diventa amante e guardiana, esperta e protettrice, testimone dei miracoli di fioritura e appassimento, del respiro del canneto e dei sogni delle fronde.

Scrive tre libri dedicati alle creature della sua palude, riesce ad affrancarsi dalla cifra limacciosa che il destino sembrava averle inferto e il romanzo segue la parabola della sua esistenza, raccontandoci un bioma torbido che «inghiotte la luce», un coacervo di esemplari accordati come orchestra e la favola pura del suo riscatto.

Le pagine migliori sono quelle che incorniciano i luoghi, di cui si avverte conoscenza e rispetto, amore e segretezza. In sintonia narrativa con altri romanzi di pessime infanzie, tra cui lo straordinario Il cielo è dei  violenti di Flannery O’Connor (rispetto a cui Delia Owens non detiene la stessa potenza espressiva) o Correndo con le forbici in mano di Augusten Burroughs, La ragazza della palude si rivela una formula efficace e coinvolgente, il fluido ritratto di una creatura di raccordo tra la terra e l’acqua. Tra la sconfitta e la sfida.

Come Kya, come chiunque si ritrovi intrappolato tra condanne di stagno e strappi a fatica per sé un lembo di realtà. Lasciando comunque che qualcosa resti. D’imprendibile e sospeso. Di sottratto al dicibile. Di scritto sulla schiuma.

 

(Delia Owens, La ragazza della palude, trad. di Lucia Fochi, Solferino, 2019, 414 pp., euro 15, articolo di Cristiana Saporito)

 

  • condividi:

Comments

News

effe

“effe – Periodico di altre narratività” numero dieci

“effe – Periodico di altre narratività” numero dieci

Archivio