Le difficoltà di Jónsi fuori dai Sigur Rós

A proposito di "Shiver"

di / 4 novembre 2020

Shiver è il suo secondo album. Da Go a quest’ultimo c’è stato un lavoro ambient fatto in insieme a Alex Somers, Lost and Found.  Un altro sotto il nome Dark Morph insieme a Carl Michael von Hausswolff.

La carriera solista di Jónsi è molto lontana dai Sigur Rós, ma è soprattutto poco chiara. Dal suo esordio le cose vanno così e le spinte dell’islandese, quando è in proprio, procedono su questa strada. A ogni suo nuovo capitolo corrisponde un passo verso un labirinto fatto di punti interrogativi sul senso di Jónsi al di fuori dei Sigur Rós.

La questione non è l’abbandonare la sacralità del gruppo islandese, e la cosa non ha bisogno di essere dimostrata – anche se comunque esiste un discorso su un certo parallelismo che può avere come comune denominatore uno smarrimento proprio del cantante. Quanto il fatto che la sua seconda vita artistica somigli più a un vivacchiare, a un lento spegnersi. C’è un obiettivo che quantomeno esteticamente pare esserci, ma non c’è la voglia di raggiungerlo.

Shiver. Che cos’è Shiver? Un album pop con risvolti dance/techno come il suo predecessore. Sicuramente è più cupo e meno festoso di Go. C’è un po’ di idm buttata nel mazzo. Sprazzi di sigurrosate, a essere larghi. Se poteva essere quantomeno interessante in passato – poliedrico Jónsi, che non si ferma sulle sicurezze di ciò che è stato fatto, che sperimenta, si mette in gioco -, più passa il tempo e più è difficile riuscire a riacchiapparlo. Il nuovo gioco è un gioco vecchio.

I falsetti non si muovono in quel magma post rock dei Sigur Rós, ma in un condensato di scelte che non riescono a fare altro che accartocciarsi l’una sull’altra. Suonano come qualcosa che ti aspetti, ma con un vago sentore che  sia un lavoro costruito come si deve, dovuto però al fatto che Jónsi è quella cosa lì, proprio quella cosa lì dei Sigur Rós. È solo suggestione. La canzone che dà nome all’album, in quest’ottica, ne è in qualche modo l’emblema.

Una sensazione strisciante vorrebbe portare a galla un fatto che, legato al suo statuto di pioniere della musica del nuovo millennio, sa un po’ di bestemmia: che i lavori di Jónsi somigliano sinistramente agli Aqua se gli Aqua fossero stati oggi gli Autechre (“Wildeye“?), caratterizzati da questa voce aliena (ma che oramai è diventata casa), una perfetta casa di barbie messa in vetrina in un localetto vintage in una qualche stradina di Reykjavík.

Sembra fatto di plastica quello che esce da Shiver, anche quando l’intento è quello di aggrapparsi a certi echi di un passato glorioso. E forse proprio per questo che risulta così. Ci sono poi delle parentesi anche notevoli (“Grenede“, su tutte), ma sembra più che altro che funzionino per un fortissimo e inevitabile effetto nostalgia: è questo a gettare un’ombra pesante e densa su tutto l’album.

Il leader dei Sigur Rós, in Shiver, è al limite dell’autoparodistico nel suo provare a essere sé stesso e al contempo non esserlo: nell’ascolto si cerca disperatamente Jónsi e si finisce per trovare la sua caricatura, magari uscita bene solo per chi, quella cosa, non l’ha mai vista spendere davvero.

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LA CRITICA

Il percorso solista di Jónsi è complesso.  Al di fuori dei Sigur Rós, ma anche con gli ultimi Sigur Rós, non riesce più ad essere incisivo. Shiver non fa che confermarlo.

VOTO

5,5/10

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