Quegli splendidi animali

“L’estate dei fantasmi” di Lawrence Osborne

di / 23 febbraio 2021

Cover di L'estate dei fantasmi

Qualche mese fa, per i tipi di Adelphi, è uscito il nuovo romanzo di Lawrence Osborne, pubblicato in realtà nel 2017 in Inghilterra. Si intitola L’estate dei fantasmi, o meglio questo è il titolo scelto per l’edizione italiana, in originale è Beautiful Animals, molto più appropriato per quel che riguarda la storia e i personaggi. Infatti è un campionario di splendidi animali in vacanza sull’isola greca di Idra a essere protagonista della vicenda.

Da un lato c’è Naomi Codrington, avvocato venticinquenne inglese che è stata appena licenziata dallo studio in cui lavorava, dall’altro Samantha Haldane, più giovane di qualche anno, statunitense, bella e scolpita come sanno essere le ragazze americane. Le due si conoscono mentre sono a Idra, in vacanza con i genitori. A dire il vero la famiglia di Naomi ha casa sull’isola, lei ci viene da quando è bambina, da quando era ancora viva sua madre che è morta ormai da una decina d’anni. Suo padre, Jimmie, si è risposato con una greca aristocratica, Phaine, che Naomi in realtà non sopporta granché.

Neanche i rapporti tra Naomi e il padre sono tra i migliori, lui proprietario di una compagnia aerea e mercante d’arte, non capisce le bizzarrie della figlia sempre in prima linea contro le ingiustizie sociali. Così – lui che di autentico non ha nulla – si chiede cosa si possa fare per «costringere i figli a essere autentici». Già, perché «i giovani adottavano vedute progressiste che non avevano niente a che fare con le loro condizioni materiali», in pratica Jimmie considera sua figlia una buona samaritana la cui coscienza è «stata creata dai media, non dalla vita». Se Osborne fosse italiano la definirebbe una radical chic.

Dall’altra parte, come detto, c’è Samantha (Sam), che è a Idra per la prima volta. Anche lei è con la sua famiglia, decisamente più ordinaria di quella dei Codrington, seppure attratta da questi strani animali che sono gli europei ricchi che si riversano sull’isola d’estate tra feste e artistoidi. Sam resta subito affascinata da Naomi, anche se le due per quanto simili dal punto di vista sociale restano «divise da un linguaggio comune» (qui, si evidenzia l’antica questione linguistica anglo-americana).

Così, prendono a frequentarsi. Finché una mattina, mentre sono in giro sullo yacht della famiglia Codrington, fanno una nuotata e raggiungono un angolo disabitato dell’isola. Qui si imbattono in un uomo, evidentemente un profugo, che dorme al sole, coi vestiti laceri. Le due non lo svegliano, lo osservano, come si fa quando vedi un cagnolino randagio. Allora Naomi ha un’idea: possono tornare in quel punto con del cibo e sfamarlo. In verità, ci mettono qualche giorno a decidersi, ma alla fine lo fanno. Di nascosto alle famiglie tornano e portano da mangiare al profugo, naufragato chissà da dove. Gli portano pesche, pomodori e feta – perché è quello di cui tendono a nutrirsi le due ragazze, salvo poi rendersi conto che forse dovrebbero portargli qualcosa di più nutriente.

L’uomo, che si chiama Faoud, non rientra però nell’archetipo del profugo di Naomi, non è un derelitto senza arti né parti, anzi, parla inglese e francese correntemente, cosicché la ragazza resta sorpresa fino a trasalire «nello scoprire che era più borghese di lei». In ogni caso, proprio come si fa quando si ritrova un cane randagio, Naomi gli trova prima un rifugio affittando una capanna da un pastore, poi in un certo senso lo adotta, se lo porta a casa, anche se la casa in realtà è un lussuoso albergo in pieno centro turistico. Sam la copre e la sostiene, anche se non condivide del tutto le mosse dell’amica, ma è da lei pur sempre soggiogata. Piuttosto, ci rimane male quando si accorge che Faoud sembra fisicamente più attratto da Naomi che da lei, nonostante sappia di essere più bella della ragazza inglese. Accetta la situazione, e anche se Naomi non le confesserà la notte di sesso che avrà con Faoud in albergo, lei lo immagina.

Da qui, il romanzo prende un’altra piega e un’altra velocità sotto ogni punto di vista. Quello che finora è sembrato solo un romanzo di costume e critica sociale a un’annoiata ricca classe borghese (per cui «l’imperativo era passarsela bene e galleggiare sulla superficie luminescente» delle cose, che passeggia sotto il sole di mezzogiorno perché «solo i ricchi disoccupati potevano infliggersi quel genere di torture»), assume le sembianze del noir, un noir esistenzialista di fattura simenoniana. Cambia anche il ritmo che imprime alla pagina Osborne che abbandona la lentezza languida e indolente da spiaggia estiva e sfodera eventi, dialoghi e colpi di scena.

Naomi ha un’idea balzana per donare un po’ delle ricchezze della sua famiglia a Faoud e permettergli di partire, di lasciare la Grecia e arrivare in Italia. Faoud in principio non si fida molto, ma poi si lascia convincere. Le cose però non filano come da piano programmato, perché «si riesce a calcolare solo un certo numero di cose. Gli errori sono inevitabili». Così, avviene un doppio omicidio, arriva un investigatore privato, la vicenda si ingarbuglia e – date le premesse – non può certo finire bene.

La narrazione, come accennavo, della seconda parte varia parecchio. Cominciano ad alternarsi i capitoli che sorvegliano Naomi rimasta sull’isola con i suoi fantasmi (da qui la decisione del titolo dell’edizione italiana), con quelli che seguono Faoud nella sua fuga in terre italiane. In questa alternanza, nel ritmo che si fa sempre più serrato, in cui gli eventi si susseguono, Osborne però non perde mai le sue capacità descrittive, le sue pennellate impressioniste di luoghi e paesaggi, e non perde neanche l’abilità di saper fermare per un momento la caccia hitchcockiana all’assassino, solo per descrivere il pranzo toscano dell’investigatore, che trova il tempo di ordinare «un piatto di gnudi alla ricotta, faraona disossata e patate arrosto. Naturalmente aggiunse una bottiglia di Riserva Badia a Coltibuono».

Siamo nel climax del romanzo, e Osborne mantiene in perfetto equilibrio di stile e ritmo. Alla fine resta un romanzo sociale e di costume che si esprime attraverso trama a tinte noir e ottima rotondità psicologica dei personaggi. Sia ben chiaro, è un noir lontano da cliché canonici; è un noir alla luce del sole, anzi fin troppo accecante, come era successo a Meursault in Lo straniero di Camus. Così si sviluppa il perfetto ossimoro, come scrive Osborne: «Tutto lo scenario, le ipotesi su cui lavorare, cambiarono, […] si incupirono. Successe tra i vigneti delle colline e i viali di cipressi, nella luce del sole che civilizzava e faceva sembrare predisposte per la felicità tutte le cose che toccava».

Ecco, si potrebbe dire che è la felicità a mancare fin dal principio, in Noemi e in Sam annoiate dal loro status in cui «la solitudine era un valore che per loro non significava niente», e in Faoud che scappa prima dalla condizione di profugo poi dagli eventi che gli sfuggono di mano. Ma altrettanto nei personaggi minori che incontriamo via via.

Osborne rimane equidistante, osserva, narra, lascia che sia il lettore a diventare giudice implacabile. Anche la scelta dei luoghi del romanzo diventa una sorta di grande allegoria tra fasti del passato e contemporaneità. Dalle isole dell’antica e civilissima Grecia si finisce a Sorano e Sovana, culle della civiltà etrusca, passando per la Puglia ellenica e la Roma imperiale. Tutte civiltà che vedevano nell’altro, nel diverso il barbaro.

 

(Lawrence Osborne, L’estate dei fantasmi, trad. di Mariagrazia Gini, Adelphi, 2020, pp. 285, euro 19, articolo di Fernando Coratelli)
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