A cosa servono gli amori infelici

di / 16 aprile 2011

È uno spettatore, un “generico della vita”, il protagonista dell’ultimo malinconico romanzo dello schivo scrittore marchigiano Gilberto Severini, A cosa servono gli amori infelici. Attraverso la parabola esistenziale, tra ricordi, confessioni e reticenza, di questo “uomo senza qualità”, lontano parente dello Zeno Cosini sveviano, Severini ci porta a riflettere su alcuni degli snodi fondamentali del secolo scorso allavigilia del nuovo Millennio: il ’68, l’avanguardia teatrale e la contestazione del teatro di parola, l’avvento di computer e cellulari e, di conseguenza, della scrittura digitale.
Nell’estate del 1999, un uomo di 58 anni, impiegato presso un ente semipubblico come addetto alle relazioni pubbliche (in realtà il suo compito è quello semplicemente di scrivere “discorsi” per il dirigente di turno, discorsi buoni per tutte le occasioni, infarciti di citazioni dotte), si appresta a subire un delicato intervento chirurgico. Ha infatti scoperto, dopo vaghi malesseri, di essere affetto da angina pectoris, detta “malattia delle vetrine” perché chi ne soffre deve fermarsi ogni tanto. Quella che però doveva essere un’operazione di routine si trasforma in una obbligata lunga degenza a causa di una complicazione riscontrata durante gli esami preparatori (in verità provocata da una infermiera distratta). L’uomo se ne fa una ragione, anzi vi vede l’occasione per dedicarsi al suo lavoro mancato, la scrittura. Ma la malattia gli offre anche l’opportunità di riflettere su se stesso, sulla sua vita non vissuta, avvertita come destino doloroso e ineluttabile («Trovai il mio lavoro e qualche mese dopo ebbi la certezza che la vita sarebbe stata infelice per sempre»). Lo fa in tre lettere: una a un collega d’ufficio, l’“Indispensabile” Fabrizi, l’unico tra i colleghi piccolo borghesi pettegoli e moralisti a rivolgergli la parola, «cattolico praticante dedito al volontariato e alle opere di misericordia»; la seconda a Don Gabriele, un sacerdote che durante una vacanza estiva aveva tentato di sedurlo; l’ultima a un personaggio senza nome, forse una parte di sé o una qualche entità trascendente, cui affida le pagine più vere e sincere.
In queste missive vengono ripercorsi i fallimenti sentimentali che si sono succeduti nel corso della sua esistenza, sia con uomini che con donne, che gli rivelano la sua genetica anaffettività: «…hai una tendenza a credere che la passione sia rara, se non inesistente in questo mondo, almeno fortemente improbabile in quello in cui hai vissuto e vivi. Sai capire i libri, ma non sai leggere i sentimenti delle persone neppure quando ti riguardano.». Il risultato è una profonda insoddisfazione, il suo sostare in una perpetua “nostalgia del presente”. La sua marca esistenziale è l’esclusione dalle gioie della vita. Sotto i portici di piazza della Repubblica a Roma, prova invidia per i giovani delle proteste studentesche del ’68 (considerato la sua occasione mancata) vivendo nel disagio di considerarsi “un frammento del sistema da abbattere”. Eppure sarebbe bastato andare nella capitale a studiare architettura dopo il liceo per poter essere uno di quei giovani contestatori. Ma non l’ha fatto. È rimasto dietro i poliziotti antisommossa, «vestito di un impeccabile blazer blu su altrettanto impeccabili pantaloni grigi di vigogna». Anche il sesso è per lui un tabù. Nel corso degli anni ha consumato solo rapporti veloci e occasionali in luoghi spesso sordidi, incapace di saper trovare il vero amore per accidia o per pigrizia emotiva.
Dietro tutti questi pensieri si fa avanti una serie di domande dolorose: «cosa mi sono perso? […] ho trascurato davvero la parte migliore della vita?». Fa venire in mente quello che dice l’Uomo Grasso al centro dell’atto unico di Pirandello All’uscita (1916): «Di tanta vita che, intanto, entrava in me per i sensi aperti non facevo conto […] il mio rammarico, ora, è di non averne saputo godere.»
La scrittura è densa, profondamente introspettiva e intensamente lirica. Per chi legge per la prima volta Severini, è davvero una scoperta. La reputazione di autore outsider per pochi eletti e la sua scelta di pubblicare per case editrici per lo più piccole, ma di qualità (PeQuod, Transeuropa, Playground) non hanno sicuramente agevolato la diffusione dell’opera di questo che è stato definito da Tondelli nella postfazione di Sentiamoci qualche volta “lo scrittore più sottovalutato d’Italia”.

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