“Butcher’s Crossing” di John Edward Williams

di / 17 aprile 2013

L’abbiamo conosciuto da poco. Anche se è defunto da più di quel poco. E con lui per quasi cinquant’anni in Italia sono appassite anche le sue storie, fluttuando nel limbo delle trame invecchiate troppo presto, nei corridoi senza finestre del fuori catalogo.

Poi, dal cilindro editoriale, il suo nome è risbucato. Copertina vintage, carta da parati già annoiata, fantasia di fogliame svilito e ripetuto senza voglia. E appena prima della fine, uno squarcio di viso, la sezione intristita di una calotta impomatata e di un paio d’occhiali da vista. Pesanti. Come l’impatto di quel nulla.

Il libro in questione si chiama Stoner (Fazi, 2012), come il protagonista di una favola grigia, senza svolte né impennate, una strada piatta e antinarrativa che però, sospinta da una scrittura prepotente, diventa da subito una lettura eccezionale. Un fenomeno di passaparola, che induce in fretta a pubblicare il secondo titolo. Butcher’s Crossing (Fazi, 2013) è il villaggio sparuto del Kansas in cui sbarca William Andrews, in una torrida giornata del 1873. Ha appena vent’anni, la pelle soffice come la vita che conduce.

A Boston tutto è comodo e amichevole, ma quelle abitudini ben arredate, il futuro morbido, l’università e le porte già schiuse non lo calamitano affatto. Quei panni inamidati lo pungono più della lana grezza.

Vuole partire, vuole capire, spremere la sua giovinezza su zone inospitali. La sua America sta mutando rapida. Non è certo l’alveare di cemento che spenna il cielo dei “nostri” anni Ottanta, ma la ferrovia sta colonizzando spazi vergini e prima inarrivabili, il traffico di uomini e di suoni è già quello di una metropoli.

E il ragazzo vuole disurbanizzarsi prima che sia tardi. Sprofondare nell’origine, sentire il verso della terra. Reclama le radici, un’esperienza di fango e fatica che lo renda uomo. Che lo restituisca ai luoghi estremi in cui non è mai stato. E dove sente comunque di voler appartenere. Per questo salta da un treno all’altro, si incappotta di polvere e sudore fino a quel pugno di baracche. Perché da lì, solamente da quell’esatto punto nascerà il suo viaggio. Verso la caccia ai bisonti. Ma non può farlo da solo. Deve affidarsi a un capo branco. Un uomo esperto che lo conduca verso l’ignoto, il primordiale. Andrews accompagnerà Miller, che fa parlare il suo fucile più di quanto riesca col suo fiato. Offre quello che può, la sua freschezza e soprattutto le sue risorse economiche ed è presto reclutato nella squadra. Che conta altre due facce. Charley Hoge, che durante una maschia spedizione ha rinunciato alla sua mano e afferra il suo whisky con l’unica rimasta e poi Fred Schneider, scuoiatore cinico che mal sopporta quel ragazzo spuntato dai batuffoli e non perde occasione per umiliarlo un po’. Si capisce subito. Quella che si avvia è molto più di una battuta di caccia.

È un rito iniziatico, un passaggio ufficiale, l’investitura dell’età adulta per il giovane Andrews. Ma è anche il confronto di quattro uomini con i propri limiti, col teatro di una natura che sa tradire le certezze più spavalde. L’occasione per far emergere le ossessioni e le crepe di ciascuno.

Miller e la sua fame di sterminio, come se asciugare quella valle da ogni bestia fosse il suo unico riscatto e la condizione imprescindibile per poter tornare a casa. La sicumera di Schneider, la fragilità di Hoge e quella mandria di creature che diventa imprevedibile, che non è solo carne e carcassa, ma una massa che corre, si muove, reagisce.

E il pericolo non striscia solo lontano dal villaggio, in mezzo al vento e alla sete, ma sgorga dallo scontro continuo di quattro volontà e dei loro bisogni. Perché la vera Frontiera comincia a pulsare dentro gli occhi prima di essere avvistata. E Williams ci staglia davanti la forza simbolica di questa avventura, la dimensione di una sopravvivenza che si estende ben oltre quel massacro. Uno scontro di corpi e di istinti e la resa dei conti con “l’Avversario selvaggio”, il mondo ruvido e sconosciuto che ci ricorda scrittori più recenti come Krakauer e McCarthy. E l’intera matassa di fatti, personaggi e sensazioni è intessuta del potere sontuoso di una scrittura spessa, magistrale, lenticolare ma non barocca. Capace di primi piani schiaccianti e panoramiche sapienti. Capace di replicare il miracolo, di avvicinare chiunque a un luogo impensabile in cui ritrovarsi a uccidere le proprie paure, senza polvere da sparo.
 

(John Edward Williams, Butcher’s Crossing, trad. di Stefano Tummolini, Fazi, 2013, pp. 360, euro 17,50)

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