“Cate, io” di Matteo Cellini

di / 12 giugno 2013

È facile. Indossare il corpo come un abito leggero. Spalle di seta, fianchi di garza. Infilarsi dappertutto come un fluido gentile, esporre al sole i confini più bianchi perché gli altri si accorgano di cosa stanno per sfiorare.

Ma camminare in discesa non è per chiunque. Di sicuro non per Caterina, che scivola bene solo in mezzo alle sue angosce. È lei la protagonista del primo romanzo di Matteo Cellini Cate, io (Fazi, 2013), tra i dodici finalisti del Premio Strega, nonché vincitore del Campiello Opera Prima.

Diciassette anni e cento chili di passi inceppati, vestiti mai abbastanza lunghi, muri mai abbastanza espansi per eclissare i suoi contorni. Caterina vive a Urbania, fantaversione di Urbino, mappa distorta di un videogioco in cui è sempre lei a essere sconfitta, qualsiasi pulsante prema. Frequenta il liceo, si acciambella tra i banchi, parcheggia le sue ore davanti a una lezione d’italiano, ma non c’è nulla in quegli scampoli che sia vagamente semplice.

Tutto deve essere vagliato, passato in rassegna, non si può lasciare al caso il passaggio quotidiano di un asteroide con i jeans. E così Cate seleziona ogni mossa: dall’attesa dell’autobus alla scelta del posto, dal colore delle scarpe al peso del respiro. Per lei i pomeriggi sono boschi crudeli, cespugli di scherno pronti a pungerla e a irritarla. Non esistono lingue innocenti, che schioccano all’aria e infagottano parole. Ci sono lame incandescenti che aspettano i suoi piedi, le sue braccia, i suoi pensieri. E quindi l’unica cura è la prevenzione: immaginare offese, autoinfliggersi le battute peggiori per evitare di restare disarmati.

Perciò Caterina è così grande da sdoppiarsi: in casa è se stessa e fuori un’eroina. Ha una famiglia grassa, che somiglia alla sua pelle, un ecosistema di gommapiuma che si è preoccupato soltanto di abbracciarla e non l’ha messa in guardia dal circo urlante al di là della porta. Ma quel gioco Cate lo ha toccato presto. Troppo curiosa per eluderlo, troppo scoperta per non essere ferita. È diventata “Cate Ciccia”: acuta, riflessiva, silenziosa, mai invadente. Perché bastava la sua carne a occupare tutti gli occhi.

Poi qualcosa, in quel costrutto fatto a regola d’arte, impastato di sale e di cinismo, comincia a sgretolarsi. C’è uno sguardo che la cerca e non per deriderla. Che la circumnaviga come si fa con le terre sconosciute. Con le terre sognate. C’è suo fratello Gionata che si permette di essere se stesso, che sorride accanto a chi sa amarlo. Suo fratello obeso che non si lascia rallentare mentre corre verso ciò che vuole. E questi eventi fulminanti strattonano il suo mondo, minano la sola certezza che riusciva a cullarla. Quella di essere infelice. Perché forse ci vuole coraggio a provare il contrario, a posare la corazza e sentirsi nudi.

E Cate, dall’alto e dal largo della sua intelligenza, ha paura di spingersi altrove. Di sapere che c’è spazio anche per lei. E poltrone accoglienti per i suoi desideri. Basta poco per sprofondare, per arrivare a un dito dal buio. A lei succede naufragando nel cibo, perché è quello il suo legittimo dolore, il destino adeguato alla sua enormità di «non-persona». Fino allo schianto. Ma rialzarsi è la vera avventura. E forse la storia comincia da lì. Per lei che è di carta e per tutte quelle schiere di ragazze reali che si muovono nei propri panni come fantasmi appesantiti. Per l’esercito di vetro di giovani donne costrette a confrontarsi con l’emporio mediatico della bellezza.

Con le flotte a buon mercato di cosce magre e levigate, di denti allineati, di seni eccessivi stampati a fatica su un torace improbabile. Con le facce impietrite di chi resta immobile, davanti agli orologi e a ogni curva d’espressione. Per tutte coloro che si sentono guaste, montate a casaccio, appiccicate a un’epoca che si finge pluralista e invece pensa solo alla sua impalcatura. Alla facciata da affrescare. Anche se il resto è a rischio di crollo. Cellini ci immerge nei saliscendi di una mente affilata, quella di Cate, dove i finali sembrano già scritti, dove prima del pane serve il vittimismo per nutrirsi davvero, anche se lo si trucca da autoironia.

Il risultato, al di là di una trama asciutta e non rutilante, è un meccanismo riuscito, sospinto da una scrittura davvero inaspettata, originale, mai prevedibile. Dove ogni metafora gioca con le altre e trascina le pagine fino alla fine. È il punto di vista l’elemento vincente, la collisione di un dialetto universale, quello del diverso, contro gli spigoli di un tempo che si racconta tondo. Un libro che esplode e implode con Cate, con la sua pienezza in cerca di misura, che qui, tra le sue righe, ha trovato la taglia ideale.

(Matteo Cellini, Cate, io, Fazi, 2013, pp. 216, euro 16)

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