“Delitto a Villa Ada” di Giorgio Manacorda

di / 28 febbraio 2013

«Un parco selvatico, addirittura fiabesco nel suo silenzio e nel suo isolamento». Eppure si trova a due passi dal caos, Villa Ada, tra il vociare di Via Salaria e il traffico del Foro Italico. Il commissario Antonio Marco Sperandio ci andava tutti i giorni, a Villa Ada. Alle sei e trenta del mattino i cancelli sono ancora chiusi, così entrava da un buco della cinta muraria e iniziava a correre mentre ancora non c’era nessuno, tra i rovi e l’intrico di rami, nel sottobosco incolto e inquietante. «Ma il rischio è il mio mestiere. Si ripeteva la vecchia battuta nell’arco di varcare il muraglione». I giorni si succedono uguali nei pressi del laghetto basso, dove si incrociano e si riconoscono, o si mancano di pochissimo, quelli che corrono tutti i giorni, puntuali, dando inizio alla giornata con quell’intervallo di fitness e fatica che quasi li ossessiona. «Lei non s’immagina quanti n’ho visti passà», racconta il giardiniere, «corono, corono… ma che se corono…» Finché una mattina ci scappa il morto, a Villa Ada: un poeta-barbone che aveva fatto del parco la sua casa e attaccava i suoi versi agli alberi viene trovato senza vita da colui che è il primo a fare una deposizione e diventa immediatamente il maggior sospettato, Giorgio Manacorda.

Il nome del primo interrogato dal commissario Sperandio, chiamato a occuparsi del caso, la dice lunga su tutto il libro, su tutta l’ironia di Manacorda, che arriva con Delitto a Villa Ada (Voland, 2013) al suo secondo romanzo (il primo, Il corridoio di legno, edito sempre da Voland un anno fa, è arrivato in finale al Premio Strega). Sebbene la maggior parte della narrazione sia affidata al discorso diretto dei personaggi, nel dipanarsi dell’intrigo noir si insinua l’onnipresenza dell’autore, che riempie ogni piega della storia parlando di poesia. «La capisco signor questore, qui sono tutti poeti. Non se ne può più! Ma una persona normale non c’è?».
L’elemento irreale e fortemente simbolico è una macchina da scrivere d’oro che permette di scrivere poesie perfette: «E chi non la vorrebbe! Quale poeta ci rinuncerebbe? Il talento non servirebbe più. Tanto ci penserebbe la macchina a scrivere belle poesie. È il sogno di tutti noi». Anche perché il talento, come dice lo stesso Manacorda, è il terrore della vita del poeta: «Perché pensi sempre di perderlo, il talento, e davvero lo perdi, magari solo per certi periodi, o anche per sempre, e questo è il terrore».

«A Villa Ada ci sono andato a correre per anni», ha dichiarato l’autore lo scorso 21 febbraio alla presentazione del libro alla libreria Ready Cavour (Roma), «i personaggi che corrono e che vengono interrogati si ispirano a persone che ho realmente conosciuto e ho dato loro i nomi di poeti minori, quasi sconosciuti, del Novecento».
Poeta l’ucciso, poeta il commissario, poeti, a modo loro, tutti i personaggi: Fausto (Marino) Moretti, Renato (Nino) Oxilia, Filippo (Ardengo) Soffici e molti altri, la cui scoperta lasciamo al lettore. Il questore porta il nome storpiato del commissario del Pasticciaccio: Argante Incravallo (nel romanzo di Gadda il nome è Francesco “Don Ciccio” Ingravallo). E poi ci sono i nomi veri, quelli dei poeti viventi Ulisse Benedetti e Renzo Paris, amici del Manacorda autore e del Manacorda indagato.

Partendo da questi spunti (pochi, ma ogni parola in più potrebbe rovinarvi la scoperta del colpevole), Delitto a Villa Ada è un libro che leggerete in mezzo pomeriggio con sorriso e sorpresa, ricavando anche interessanti argomenti di riflessione sulla poesia contemporanea, sul ruolo svolto oggi dalla «specie in estinzione» dei poeti e sui rapporti, non sempre pacifici, che intercorrono tra gli scrittori di versi.
«Mi sono divertito. Ho capito che se fai il narratore, in un romanzo ci puoi mettere qualsiasi cosa, non è come la poesia o il saggio […]. Se scrivi versi non è detto che tu sia un grande poeta. È possibile essere stroncati. E i poeti si offendono a morte».


(Giorgio Manacorda, Delitto a Villa Ada, Voland, 2013, pp. 144, euro 14)

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