“Gli anni di nessuno” di Giuseppe Aloe

di / 16 ottobre 2012

La città non si chiama. Perché non ne ha bisogno. Sono strade, lampioni, ricami ortogonali. Pentagrammi d’asfalto dove non si resta mai. Si passa e basta. È solo l’ombra che a volte si arena, nei gomiti delle finestre accese, ma sa già che la sosta sarà breve. La città non si chiama perché forse si sentirebbe imbrigliata, perché qualcuno chiamandola si riterrebbe il suo padrone.

È solo una scatola, lo spazio di nessuno dove si consumano Gli anni di nessuno, nuovo romanzo del finalista al Premio Strega Giuseppe Aloe.

A riempire le pagine è la voce di Gambart, uomo di mezza età dedicato alla scrittura, che nel pieno del sonno riceve una telefonata. Qualcuno bisbiglia da un punto annacquato che «il professore è morto, è morto all’alba». Ma all’alba di cosa? Di quale vicenda? E chi è il professore per il protagonista? Perché è così importante saperlo, tanto da offendere un’ora notturna e compromettere le successive? In queste domande c’è (o meglio ci sarebbe) la storia di Gambart, bambino partorito da una donna troppo fragile. Lui inizia a respirare e lei smette di colpo. Sembra dormire all’ospedale, ma lo farà per sempre. Al piccolo rimane solo il padre, che amava talmente la moglie da imputare al figlio la colpa peggiore: quella di aver spinto troppo, di aver spinto male il ventre di sua madre, tanto da ucciderlo. La sua reazione è punirlo, relegarlo in un silenzio di luce e di parole, con una scodella muta da cane in catena e un rettangolo di giorno che sbuca da lontano. È un prigioniero di minuti infiniti, non conosce l’alfabeto così come ignora le carezze, non esce, non comunica, cresce guardando filmati sempre uguali, finché suo padre impazzisce anche per gli altri, comincia a urlare e dissotterra quell’orrore. Il bambino viene liberato, diventa un caso di cronaca e viene consegnato a un istituto che gli insegni a esistere. Ma allora interviene Gondrenovic, il professore vecchio amico del padre, che decide di prendersene cura, di generare la sua bocca e i suoi pensieri. È il suo tutore, il suo maestro, il suo paio d’occhiali. Gambart ha bevuto troppo buio durante la sua infanzia, il sole lo ferisce e l’estate è un pericolo. Dovrebbe sempre camminare sotto un cielo malinconico, il grigio è la coperta più sicura, ma imparare davvero a vedere è una sfida a cui non può sottrarsi. Accorgersi di quello che c’è intorno per saperlo raccontare, parlare, scrivere, interiorizzare lezioni difficili. Capire che si comincia a morire da quando si nasce, che progrediamo tutti verso la fine contrapponendo inutilmente i due termini. Capire che il dolore del distacco da cose o persone deriva dalla consapevolezza della loro struggente futilità.

E quando Gondrenovic muore, al suo allievo non resta che ereditare. I suoi averi e i suoi insegnamenti. Lo spiazzamento di sentirsi solo, di non essere in grado di affrontare l’amore. Di non parlare l’amore, di sentire che le sillabe rimbalzano dentro il suo petto. L’unica donna che ha incontrato è Annet, anche lei alunna del professore, la stessa che lo informa del lutto, la stessa che lo inizia al sesso per poi scomparire e riapparire di nuovo. E Gambart resta un fantasma, aleggia per angoli cupi senza interagire con nessuno. È «l’estrema sintesi del niente», un ologramma che pascola per quartieri innominati; deduciamo solo dal nome dei personaggi che potrebbe trattarsi di un segmento di Europa, forse dell’Est, ma in fondo chissà.

In fondo non importa. La sua vita è chiusa dentro una bolla, tutto sta nel comprendere di che bolla si tratta. Quella del suo trauma? Quella soffiata dalla sua mente? Che soluzione può escogitare una testa in trappola? Può, ad esempio, elaborarne un’altra, al riparo dai dialoghi veri. Un qualcosa che sembri una macchina perfetta, in cui tutti i personaggi hanno un peso specifico e contribuiscono all’evoluzione degli eventi. Un congegno che sembri una storia, dentro cui tutto torna e tutto sta al caldo. D’altronde ogni storia è un inganno, come i “normali” dimenticano. Come i “matti” sanno bene. Gambart è un carcerato, rimane schiavo di quello che non può concedersi, della sua incapacità di sentirsi umano. Non riesce a saltare nel limbo del “tu”, anche se l’altra pelle gli manca davvero.

Trama bruciante, con un forzuto colpo di coda. Le immagini sfilano e non si catturano. Immagini che Aloe ci restituisce con la sua punta fendente, metafore-coltello, costruite con la freddezza icastica di chi racconta un taglio, uno squarcio che non si rimargina. Che si può solo restare a guardare mentre i libri, il potere straziante della letteratura proveranno comunque a distrarre quel sangue.
 

(Giuseppe Aloe, Gli anni di nessuno, Giulio Perrone Editore, 2012, pp. 192, euro 13)

  • condividi:

Comments

News

effe

“effe – Periodico di altre narratività” numero dieci

“effe – Periodico di altre narratività” numero dieci

Archivio