“Il nome giusto”: a tu per tu con Sergio Garufi

di / 17 ottobre 2011

Non capita spesso di imbattersi in un pomeriggio così poco banale. E di capire che dietro un buon libro c’è una persona altrettanto buona, che gli ha dato un corpo.
Stavolta abbiamo l’occasione di incontrare la voce di un grande esordio, Sergio Garufi, autore de Il nome giusto, pubblicato da Ponte alle Grazie, una storia semplice dentro un libro complesso, multiforme, stratificato. Un viaggio a ritroso che diventa una spinta in avanti. E soprattutto un romanzo fortemente autobiografico.


Come è nata l’esigenza di cominciare a scrivere, scegliendo di partire da se stesso? La sua vita era già abbastanza letteraria da essere lo spunto migliore per imbastire la trama? Ci racconti un po’ la gestazione di questo libro.

Perché iniziare da me sembrava la via più facile e al contempo la più difficile. Facile perché attingevo alla mia vita e difficile soprattutto perché le persone coinvolte di solito non amano esserlo o lo vogliono a modo loro e anche se trasfiguri, cambi colori e dimensioni, cercano disperatamente di riconoscersi. Alcuni addirittura si sono arrabbiati perché non comparivano, quindi voleva dire che non contavano o perché magari il personaggio non era minimamente ispirato a loro. E poi credo di aver preso le mosse da lì perché avevo la sensazione fosse una storia in qualche modo riconoscibile, cioè che un protagonista che si sente trasparante, “nessuno”, possa in fondo appartenere a tanti, anche se non lo ammettono pubblicamente.


Il protagonista, come lei, ha fatto l’arredatore e il libro è costruito come un insieme di interni, ogni stanza si compone di pezzi che si richiamano e si armonizzano. Lo stile “patchwork” che voleva esportare in America è un po’ il leitmotiv di tutto il testo. Tutto ciò è bello e prezioso viene colto e ricombinato. Ma molto viene dal passato. Cos’è che invece il presente può offrire di bello, secondo lei? Cosa è rimasto oggi da poter salvare e magari inserire in un nuovo romanzo, nella società così come nell’arte e nella letteratura, che in fondo dovrebbero rispecchiarla?

Il mio primo approccio all’arte, ovvero alle cose belle, è stato un piccolo museo privato concepito come  una Wunderkammer, una camera delle meraviglie che raccoglieva elementi splendidi e molto diversi: un tappeto persiano del ‘500, un dipinto di Piero della Francesca… e ognuno di noi secondo me ha una propria Wunderkammer immaginaria che arreda con momenti e situazioni. E io ho fatto lo stesso con questo libro.
Non sono pessimista nonostante tutto. Penso che ci siano molte cose interessanti che meritano la pena di essere notate. Ovvero degne di nota. Ma bisogna avere buon occhio, perché a volte mi stupisco di essere l’unico in mezzo ad un gruppo di amici ad essersi accorto di qualcosa. Ed anche quella è una qualità. Io non sono sicuro di essere capace di produrre il bello, ma credo di saperlo riconoscere.
Da salvare ci sono ancora le piccole cose. Anche questo posto o altri angoli in cui rifugiarsi: la libreria dell’Auditorium, mostre, chiese, paesaggi. Purtroppo poco di quello che facciamo ci appartiene totalmente.
Anche nel linguaggio è così. Viviamo di mode lessicali. Come quella “dell’inquietante” di cui parla Tommaso Pincio. Siamo schiavi di automatismi espressivi e quando succede tu non stai parlando, ma sei parlato, non cogli il senso di quello che dici. E questo è solo un aspetto. Perché anche il nostro immaginario ha vissuto una colonizzazione del genere ed è soggetto a certi schemi e tendenze. Ci si uniforma anche nelle scelte di un posto. Tutti dicono “Voglio andare alle Maldive” come fosse l’unico luogo con certe caratteristiche paradisiache. Io invece ho dei luoghi elettivi che ho scoperto da solo, come una torre di avvistamento longobarda che spuntava tra due rami del lago di Como. E quello che non sopporto è andare da qualche parte solo perché ti è stato detto. O dire qualcosa perché gli altri la pronunciano. Per omologarsi.


E proprio un tratto saliente del romanzo è la voglia di uscire da questa spersonalizzazione, di fare proprio il linguaggio, sfida che ho trovato forte e stimolante. Non è facile incappare in un testo che in un periodo asservito al prestissimo, alle frasi sincopate e a termini banali si arroghi il diritto di scrivere “bruxismo”, o “scotomizzare”. Qual è quindi per Lei la funzione del linguaggio? Cosa significa usarlo in quella maniera, spremerlo, strizzarlo fino in fondo?

Hai detto bene, è proprio quello che intendo. C’è una frase di Celine che per me è un maestro di stile importantissimo, secondo cui bisogna «torturare il linguaggio fino a farlo parlare», perché non parla di per sé. Poi la questione delle parole difficili è stata un po’ controversa. Qualcuno ha detestato la scelta, altri l’hanno molto apprezzata. In realtà deriva dal fatto che il protagonista fin da bambino per mappamondo aveva il dizionario e lo scorreva con la golosità di un turista in cerca di parole difficili e questo è stato anche motivo di isolamento da parte dei suoi compagni, per cui non poteva non esprimersi così. E poi un mio criterio guida è quello dell’economia. Se c’è un lemma, un termine che ne può evitare tre, anche se non è così comune, è meglio. E poi è bello recuperare certe parole che non si usano più, ma che possono essere applicate a vari contesti. Come “bustropedico”, che descrive il tipo di scrittura etrusca a zig zag, ma che potrebbe adattarsi benissimo ad un politico che cambia schieramento o all’andatura di un ubriaco.


E il libro non sarebbe stato possibile senza tutti i libri che contiene, tutti gli universi che gli respirano dentro. E che trasudano amore per la letteratura.

La mia intenzione comunque non era scrivere un saggio ma far sì che la storia fosse trainante e che si capisse che nella vita di quest’uomo i libri erano stati importanti come gli amori e i suoi viaggi. Un’esperienza a tutti gli effetti.


E questo amore diventa ancora più pressante e morbosamente bello quando si parla di Borges, momento anche quello enormemente personale, perché debitore di una vicenda realmente accaduta. Qual è stata la lezione più essenziale appresa da una figura come la sua?

La sua generosità, la tendenza ad attribuirti delle osservazioni brillanti che non avevi fatto. E poi mi ha insegnato che il pedantismo, ovvero parlare per bocca di altri, a volte è una forma di pudore e non di arroganza. Molto dipende dal modo di porgere la citazione, ma usare quello che hanno scritto gli altri è una forma di rispetto e difesa. E poi il suo stile, per cui non c’è una parola appropriata.


Il suo è un esordio bello e riuscito, ma si incentra sulla condizione di un protagonista senza nome (perché forse nessuno è il nome giusto) che tenta la carriera di scrittore, che si dibatte con fatica, con molte difficoltà accessorie, sempre ad un orlo dal traguardo. Qual è quindi il consiglio che si potrebbe dare ad una persona che si ritrova in quello stesso stato, un aspirante scrittore che oggi voglia provare a prendersi sul serio? Cos’è che dovrebbe fare e cosa dovrebbe evitare?

Questa è un’ottima domanda. Sono molto d’accordo con le parole di Jobs al discorso di Stanford e nonostante io sia stato uno che nella vita se l’è spesso fatta addosso, credo che occorra provarci. Comunque. Come diceva la zia Salud nel mio libro «el no ya lo tienes», perciò bisogna tuffarsi. Io ho fatto una cosa folle, ho lasciato la mia attività senza avere ancora un contratto, ma se ci si impegna a fondo i risultati prima o poi si ottengono.


Ma cos’è che manca di più, una buona idea o una buona occasione?

Nel mondo editoriale italiano non ci sono molte persone in grado di apprezzare i progetti validi. Ma i talenti ci sono, io me ne rendo conto spesso. Se si ha una buona idea e ci si lavora sopra, presto o tardi verrà fuori.
Bisogna guardarsi intorno e fare la scelta giusta. Puntare gli editori adatti. E poi il periodo attuale è molto attento agli esordienti, cosa che trent’anni fa non sarebbe stata possibile. Gli ultimi bei nomi spuntati sono una dimostrazione. Arrendersi non è mai la soluzione migliore.


Grazie e in bocca al lupo per il suo romanzo.

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