“Il nome giusto” di Sergio Garufi

di / 19 settembre 2011

Di quante vite vive chi legge? E come queste si appoggiano su quella reale? La assecondano sfregando le spalle o la deridono a tal punto da farle credere di essere la più inventata di tutte? Un po’ d’inchiostro maldestro deragliato dal foglio? La riposta è plurale. Sempre. Si scompone nei riflessi delle pagine girate. Nelle schiene degli odori che incidono ogni storia.
È questa la prima enorme traccia di Il nome giusto, primo romanzo di Sergio Garufi.
Esterno giorno. Un uomo giace sull’asfalto tra i motori di Roma, in piena circonvallazione. In una delle tante. Ha 48 anni, o meglio li aveva fino a un minuto prima.
È morto con poco, è caduto all’improvviso, in mezzo a sguardi che non possono rialzarlo. E allora c’è la sua voce a prestargli soccorso. Il solo possibile. Quello del racconto.
Il fantasma narratore che sbarca dal suo corpo e lo conduce altrove. O forse lì. Nel limbo nebbioso dove stimiamo di esistere. E ci sbracciamo d’affanni, chiamando per nome quella foschia.
Lo scopriamo aspirante scrittore, figlio perplesso, compagno imperfetto, un uomo ad un passo. Dal successo, dall’amore, da se stesso. Polmoni troppo stretti per tutta l’aria da ingoiare.
L’unica vera pluviale pienezza scroscia dai libri. Da quelli che dischiudono ben più della trama. Che rivelano le ossa di chi li ha maneggiati. E prima scelti. E prima ancora è arrivato fino a loro.
Ormai i testi non gli appartengono più, anche se probabilmente li possediamo solo il tempo di arrivare alla fine. Dimorano in un vecchio negozio in attesa che qualcuno li riscatti. Per due o tre spiccioli.
E proprio attraverso di loro, di quell’immenso valore incosciente, l’autore ripercorre i suoi giorni, le sue ombre, i suoi respiri. Si ritrova campione promesso di tennis a cui la palla non ha sorriso abbastanza, giunto secondo al torneo più importante e quindi peggio che ultimo. Perché l’anticamera dell’oro sporca più del piombo. Diventa commerciante sventagliato per l’America, affarista sfiorito sul ciglio del traguardo, costretto a rincasare più sfumato che mai, convinto che il grande momento avesse per lui dimensioni ridotte.
Quanto il sedile di un treno, dove oscillare da una città all’altra sperando avesse gli occhi della donna adatta.
Una girandola di nomi controvento, troppo gracili per stare alla corrente. Come il suo, che non viene mai detto, perché sono i suoi libri a pronunciarlo in ogni riga, o perché, come Tremotino dei fratelli Grimm, può sopravvivere solo se nessuno lo conosce.
E si attraversa una foresta di titoli, di mani sapienti e destini febbrili. Da Borges a Kafka, da Leopardi a Celine, ogni scrittore riscrive le impronte delle sue corse, con un moto d’assenza e speranza tradita.
Il linguaggio impiegato spreme l’italiano in mille versi, sfruttandone termini nascosti, stupendo lo sguardo con parole rigogliose e a volte imprendibili per chiacchiere così spesso felici d’abitudine.
Il ritmo è vivace, scalcia con forza tra memorie e visioni, è agrodolce e frustrato come i cammini incompiuti.
Ma la sua amara bellezza e il suo rapido viaggio sono ancora straripanti di energia. Quella che un battito non strozza. Perché leggendolo si hanno molte impressioni, ma non quella di stare in compagnia di un defunto.

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