“Mi riconosci” di Andrea Bajani

di / 25 aprile 2013

Tutto comincia dalla fine. Come l’esordio di un manga. Un capitolo di scrittura araba.

Comincia dalla vita che se ne va di schiena, da un numero da circo che si chiude a riccio, nel suo silenzio ermetico. È un funerale a debuttare sulla scena, una macchina scura seguita dagli occhi come una scia, una cometa di fari e metallo. Parenti e amici sono lì per l’ultimo incontro, insieme ai fiori incoronati, i vetri neri, il corteo degli sguardi avvizziti malgrado le lacrime. Chi muore, almeno il giorno della sua cerimonia, non è mai uno qualunque. È quel mattone di cuore che viene a mancare, per chi dovrà farne a meno.

Ma in questo caso, il protagonista al centro esatto dell’addio, è padrone di un’assenza scomoda. Chiassosa.

Quella scatolina di legno chiaro, più adatta a «mettere via gli scacchi a fine partita», abbraccia il corpo di Antonio Tabucchi. Ed è lui il burrone, il vuoto radioattivo attorno a cui gravita il nuovo romanzo di Andrea Bajani Mi riconosci (Feltrinelli, 2013). L’autore si confronta con un suo stesso frammento, il declino e la partenza del suo amico verso una finestra cieca, senza scorci né saluti dal cortile.

La morte che inizia a serpeggiare, tra le solite cose, tra le piaghe di una smorfia, la corteccia che si arrotola e fatica a stare in piedi e poi quel fantasma canceroso conquista vertebre e minuti, scampoli di muscoli e pensieri fino a farsi parola. Tabucchi scrive a Bajani che si è ammalato, in una mail frettolosa, quasi stizzita, irritata da quella curva a gomito verso l’ignoto. Da lì in poi gli appuntamenti tra loro si complicano.

Si liquefanno al telefono, quando la notte avvicina le voci dietro lo stesso angolo, quando il racconto di un romanzo non scritto diventa un ponte allungato tra le gole. Oppure sono messaggi di posta infilati nel computer, «dolore sterilizzato» e poi «spedito dall’altra parte dell’Europa»; angosce depressurizzate, resoconti di chemio, degenze e letti d’ospedale. Frasi ricoverate su uno schermo, respiro evaporato, fatto orizzontale, perché anche per lui tenersi eretto è ormai quasi impossibile.

Le pagine del libro sono il diario di un rapporto, foto sparse di una grande amicizia, la trama di ricordi che lo irrorano ancora, a dispetto dei distacchi.

Le città vissute insieme: Vecchiano, Parigi e poi Lisbona, quella eletta dall’anima di Tabucchi sulle orme di Pessoa; i personaggi sfuocati che non vengono a galla e grattano la stanza; le storie incompiute agitate nella pancia prima di arrampicarsi sulla mano, la materia incandescente e magica di una conversazione tra due narratori. Ma poi anche le piccole ossute paure di ogni essere umano; le fissazioni, le premure legate agli oggetti da non abbandonare. Tabucchi che prega Bajani di abitare le sue case solitarie, perché «se non ci sta nessuno, quella casa non c’è»; Tabucchi che porta sempre con sé una borsa immancabile, senza introdurvi niente se non le sigarette; Tabucchi che muore al posto di Tristano, che si isola per ore dietro una porta socchiusa, per poi ricomparire stornellando un fado, mentre la moglie fuma il rancore di quel tempo incompreso.

Come si spegne un artista? Qual è il rito del congedo davanti alla soglia? C’è un buio più nobile per lui? Una morte meno morte? Un trapasso di velluto, foderato del cordoglio di chi condivide la sua stessa fame, il suo specchio rifratto per scomporre il mondo?

Di sicuro, qui c’è il passaggio di chi va e quello di chi resta. Di chi filtra la distanza attraverso la memoria e l’urgenza di arredarla, di popolare uno spazio lasciato scoperto. Con il proprio mobilio. Con l’ingombro dell’affetto e l’arsenale dei suoi tarli.

Bajani è l’inquilino di un palazzo immenso, fatto di strade, volumi, atmosfere. Le stesse dimensioni che non hanno seguito Tabucchi dopo il fiato finale, pur rimanendo aggrappate al suo nome. Le stesse che dimorano sempre più forte tra i paesaggi dei suoi testi. Le stesse che bussano a ogni riga per chiederci di leggerla, di “riconoscerla” come l’aria di luoghi posseduti. E che l’autore ci lascia intravedere, tra le persiane della sua scrittura densa. Pastosa, febbrile, poetica. Viva, straziante, un linguaggio di carne che soffre. Pronta a regalarci l’eternità di un omaggio, l’applauso insolubile che non si stanca di piovere intorno a un uomo libero.

Al suo teatro di sogni, riflessi, finzioni che non possiamo definire, se non il sangue stesso della letteratura. Di chi vive scrivendo. E muore lasciandoci vivere.


(Andrea Bajani, Mi riconosci, Feltrinelli, 2013, pp. 143, euro 12)

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